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La riforma monetaria di Emanuele Filiberto, X Duca di Savoia.

Fig.1 Emanuele Filiberto in un ritratto di Scipione Pulcione (immagine tratta dal sito internet www.wikipedia.it)
Fig.1 Emanuele Filiberto in un ritratto di Scipione Pulcione (immagine tratta dal sito internet www.wikipedia.it)

 

Prima di iniziare la trattazione dell’argomento preso in esame, è opportuno tratteggiare, per sommi capi la vita del Duca, promotore della riforma, e il panorama storico-economico che la ha generata.

1.1 Biografia

Emanuele Filiberto (fig. 1) nacque l’8 luglio 1528, figlio terzogenito di Carlo II e Beatrice del Portogallo.
In quanto figlio cadetto, fu avviato alla carriera ecclesiastica, (da cui gli deriverà il soprannome di “cardinalino”), che abbandonò alla morte del fratello Ludovico, quando divenne erede del Ducato.
La pace di Crépy del 1544 aveva sanzionato la disgregazione dello Stato sabaudo, spartito tra francesi e spagnoli, per cui il Duca Carlo II mandò il figlio alla corte dell’Imperatore Carlo V, in modo tale da perorare la causa sabauda.
Ben presto, Emanuele Filiberto rivelò le sue capacità strategiche, distinguendosi nelle battaglie di Ingolstadt, Northlinguen e Mulberg, contro la Lega Protestante.
Tali vittorie, nonostante la giovane età, gli valsero il soprannome di “Testa di Ferro”, nonché la nomina a comandante in capo dell’esercito imperiale e il Toson d’Oro.
Sotto Filippo II, successore sul trono di Spagna di Carlo V, divenne governatore dei Paesi Bassi. Al servizio della Spagna, combatté nella guerra contro la Francia, conquistando diverse città tra cui Verdun ed Hesdin, dove apprese della morte del padre.

Nonostante ciò, egli decise di continuare nel suo intento: garantire una vittoria tale alla Spagna, da permettere la restituzione delle terre dei suoi avi; pertanto nominò luogotenente generale dei suoi possedimenti il Maresciallo Renato di Challant.
Il 10 agosto 1557 ottenne una vittoria schiacciante a San Quintino, nelle Fiandre, tanto da costringere i francesi, nuovamente sconfitti a Gravelines, a capitolare il 7 aprile 1559.
La successiva pace di Cateau-Cambresis, che poneva fine al conflitto, stabiliva, in una delle clausole, la restituzione immediata di tutti i suoi Stati, ad eccezione di Torino, Chieri, Pinerolo, Villanova d’Asti e Chivasso oltre ai territori dell’ex marchesato di Saluzzo, che rimanevano alla Francia come garanzia per l’esecuzione dei patti, mentre le piazze di Asti e Santhià, in mano alla Spagna; un altro articolo del trattato, invece, sanciva il matrimonio del Duca di Savoia con Margherita di Valois, sorella del re di Francia.
Tornato in patria, visitò i principali borghi e città del Ducato, costatando le serie difficoltà in cui versavano i suoi possedimenti: i confini erano indifesi, le casse dello stato vuote, la nobiltà era ribelle e la corruzione dilagava.
Egli si dedicò, quindi, alla riorganizzazione dello Stato.
I suoi primi interventi furono rivolti al risanamento delle finanze, poi si occupò della difesa, riarmando le piazzeforti esistenti e costruendone di nuove; istituì la leva obbligatoria organizzando un esercito di 30.000 uomini e potenziò la flotta, che partecipò alla battaglia di Lepanto.
Gli interventi riformatori del Duca furono capillari e riguardarono la giustizia, l’agricoltura, l’industria mineraria e l’istruzione, fondando l’Università di Torino, restituitagli nel 1562.
Nel 1574 tornarono al Ducato anche le fortezze di Pinerolo e Savigliano, mentre l’anno successivo gli Spagnoli restituirono Asti e Santhià: in questo modo il Duca era rientrato, interamente dei suoi possedimenti.
Sul piano amministrativo, grande importanza fu l’introduzione dell’italiano come lingua ufficiale dello Stato.
La morte lo colse il 30 agosto 1580 e gli successe il suo unico figlio legittimo Carlo Emanuele I.

1.2 Le Zecche di Emanuele Filiberto

Le Zecche attive sotto Emanuele Filiberto, come Duca di Savoia (1559 – 1580) furono Aosta, Asti, Bourg-en-Bresse, Chambèry, Nizza, Torino e Vercelli.

1.3 La situazione monetaria antecedente la riforma

Durante il regno dei predecessori di Emanuele Filiberto, si erano sviluppate due aree monetarie differenti: un’area piemontese e una sabauda, non perfettamente coincidenti con le aree geografiche; accanto a queste, progressivamente, andarono definendosi micro aree, ai confini dello Stato. Come conseguenza le monete battute in Savoia avevano un valore differente da quelle che circolavano in Piemonte: le prime subivano l’influenza della monetazione francese, mentre le seconde rientravano nell’area monetaria degli Stati italiani confinanti.

Il problema era aggravato dal fatto che non esisteva una proporzione tra i vari pezzi coniati; inoltre l’inflazione aveva portato all’emissione di monete con una lega sempre più bassa, tanto che nel 1561 il grosso, in Piemonte, aveva perso 11/12 della sua bontà (da denari 33.2/2 ((L’unità ponderale negli Stati sabaudi era il marco;

1 Marco = 8 Once,
1 Oncia = 24 Denari,
1 Denaro = 24 Grani,
1 Grano = 24 Granotti,
1 Granotto= 24 Granottini.
Il titolo dell’oro si valutava in Carati:
1 Carato = 24 Grani,
1 Grano = 24 Granottini.
Per la bontà dell’argento era in uso il Denaro:
1 Denaro = 24 Soldi))) di argento a grani 5.3/4).

Essendo le entrate dello Stato basate sul grosso, si ridussero notevolmente, quindi, le disponibilità finanziarie del Ducato, con gravissimi danni all’economia.
Questa grave crisi economica, in cui versava lo Stato sabaudo, era venuta delinendosi sotto il predecessore di Emanuele Filiberto, Carlo II, a causa, soprattutto, delle spese di guerra.
Da ciò si capisce quale confusione regnasse all’epoca: ciascuna moneta aveva un proprio corso, senza alcun rapporto di proporzione con i multipli e i sottomultipli, senza contare che monete con lo stesso conio avevano bontà diversa.

Brevi Cenni sulla Pontificia Zecca di Terni

MMXI

Alla memoria di Nino Rapetti ,
“Magni nomini umbra stat”

Introduzione

Questo breve saggio che mi accingo a scrivere si prefigge lo scopo di esplicare in poche pagine le vicende legate alla Pontificia Zecca di Terni che operò nel brevissimo periodo compreso tra il 1797 e il 1799. Per facilitare il lettore ho ritenuto opportuno dividere l’opera in due parti: la prima in cui cercherò di ricostruire la storia dello stabilimento monetario ternano illustrando non solo l’aspetto strettamente legato alla numismatica , ma anche riportando i principali eventi di questa città nel XVIII secolo. La seconda parte invece destinata ai collezionisti in cui elencherò e cercherò di mostrare le differenze tra i vari coni di queste monete che sotto il profilo numismatico rappresentano delle vere e proprie rarità.

1 - Cardinale Saverio Canale ,Tesoriere Generale di S.R.C. ; Xilografia del 1776 -Archivio Canali.
1 – Cardinale Saverio Canale ,Tesoriere Generale di S.R.C. ; Xilografia del 1776 -Archivio Canali.

A questo punto riporto al lettore alcuni minimi cenni storici sulla città di Interamna; città che vanta la sua nascita, come ci è narrato da alcuni storici dell’antichità ((Tito Livio e Plinio il Vecchio ; Cfr. Mss. Anonimo –XVIII sec. ”Dell’Antica Origine della Città dei Taciti” –Collezione Privata.)), 81 anni dopo la fondazione di Roma . Durante il I secolo d.C. furono edificati templi, il teatro, due terme e l’anfiteatro Fausto che ancora oggi rimane a testimonianza della passata opulenza. Terni è da sempre ritenuta la patria del celeberrimo scrittore romano Publio Cornelio Tacito e degli imperatori Marco Claudio Tacito e Marco Annio Floriano i cui saccelli , presenti fuori le mura cittadini ,furono purtroppo distrutti nel 1575. ((Cfr. Mss. “Sulle tombe dei Tre Tacito”, Ettore Sconocchia 1907 – Collezione Privata)) Di questa città fu vescovo San Valentino ,protettore degli innamorati e vi sorgono tutt’oggi il convento e la chiesa che vide nel 742 il solenne incontro tra Liutprando e il Santo Pontefice Zaccaria, in seguito al quale il re longobardo fece atto di rinuncia al possesso dei castelli occupati in quell’anno, compreso Narni, e definì un nuovo assetto territoriale del suo regno nell’Italia centrale. La città assumerà maggiore rilievo tra il XVII e il XIX secolo quando alti prelati ,come il Card. Luigi Gazzoli e il Card. Saverio Canale, ed illustri letterati ,come Giuseppe Petrucci ,che tradusse in italiano Tacito , la onoreranno svolgendo importanti cariche nella Curia Romana tanto da essere scelta per ospitare il pontefice Pio VI Braschi nel 1796.

La Zecca di Terni

“Siamo venuti nella determinazione di permettere che nella Nostra Città di Terni possono il Marchese Sciamanna e Cavalier Paolo Gazzoli intraprendere a tutte loro spese la battitura delle monete di rame”. Con questa dichiarazione di Pio VI del 1797 si autorizza la nascita della zecca. La città in quel periodo era di grande interessamento per il governo pontificio tanto da farvi aprire nel 1794 una ferriera , una fabbrica di lavorazione di lastre di rame e risulta esservi già nella zona , nei pressi di Polino, una miniera d’oro il cui prodotto si dice sia stato usato per la coniazione ,a Roma, degli zecchini di Clemente XIII datati 1761 ((Cfr. “Le Miniere di Narnia: Ritrovata la miniera d’oro” – Alvaro Caponi ,2009.)). La presenza dell’opificio per le lastre di rame rendeva ,senza dubbio, più facile le operazioni di battitura evitando di dover acquistare la materia prima in un altro luogo. In data 1° luglio 1797 Pio VI invia a Mons. Girolamo della Porta una missiva in cui risulta: “ Sono ricorsi al Pontificio Nostro Trono il Marchese Marcello Sciamanna, e il Cavalier Paolo Gazzoli ambedue Patrizi della Nostra Città di Terni, umilmente rappresentandoci come nella Città stessa per abbondanze moltissimo di acque, e per ritrovarsi in essa da molto tempo stabilita la lavorazione delle Lastre di Rame sarebbe molto opportuna l’Erezione di una Zecca per la battitura dello stesso metallo, la quale poi si renderebbe di un sommo vantaggio non solo alla popolazione della Città stessa, ma alle altre ancora circonvicine principalmente in vista del giornaliero pagamento delle Mercedi occorrenti per gli uomini impiegati nell’esercizio dell’agricoltura e delle arti; ed animati dal lodevole desiderio di promuovere li vantaggi della prefata Lor Patria, si sono esibiti di aprire la Zecca della suddetta a tutte loro spese, qualora vi concorra la nostra Sovrana Nostra approvazione” . Il quantitativo preciso di monete che dovrà essere coniato sarà stabilito dal Tesoriere Generale ; le monete dovranno essere da due bajocchi e mezzo, due bajocchi , un bajocco , mezzo bajocco e quattrini. L’incisore dei coni dovrà essere stipendiato dagli stessi Sciamanna e Gazzoli . Nello stesso chirografo pontificio è specificato che le monete coniate dovranno essere custodite in un “gran cassone” che disponeva di cinque serrature e cinque chiavi diverse affinché “detto cassone non debba mai aprirsi se non vi saranno le prefate cinque chiavi e nel medesimo cassone debbano esservi cinque divisioni per collocarvi in ognuna di esse una delle cinque specie di moneta ciascheduna sera, al termine del lavoro , colla presenza di uno dei cinque deputati alla zecca o di un loro delegato ((Cfr. ”La Zecca di Terni” -Ada Bellucci-Ragnotti ,1903.)) ”. Evidentemente il permesso ottenuto non era di gradimento ai due “imprenditori” ; risultava infatti più conveniente ,a parità di materiale, battere i nominali con più alto valore poiché il tempo di produzione e le spese erano identiche. Quindi essi richiesero ,con un’altra missiva ((Cfr. Ada Bellucci Op. cit. pp.12-13 :“Beatissimo padre, il Marchese Marcello Sciamanna oratore e suddito umilissimo della Santità Vostra ossequiamente espone, che in virtù di benigno suo rescritto ,fu, con altro di lui compagno abilitato ad aprire in Terni la Zecca per il conio delle basse monete […]perciò umilmente supplichiamo Vostra Santità che a compimento dei tratti della Sua clemenza voglia degnarsi di accordare l’astensione del suddetto Chirografo anche all’effetto ,che nella stessa zecca oltre la moneta di rame possano coniarsi le Murajole”.)), l’autorizzazione per battere monete in “mistura” ((La “mistura” è una lega di rame, argento e altri metalli quali piombo, ferro e carbone . Da Ada Bellucci Op. Cit. pp.4 : “Una analisi chimica eseguita da mio padre Prof. Giuseppe Bellucci sul metallo di una murajola da bajocchi sei di Terni ,di aspetto bruttissimo, forse argentata semplicemente all’esterno, rilevò la costituzione seguente: Rame 96,6 % ;Argento 3,1%;piombo e ferro :tracce” E’ ,però , più che probabile che l’esemplare esaminato sia stato uno dei tanti falsi dell’epoca scelto proprio a causa del suo “aspetto bruttissimo” non sentendosi di danneggiare un esemplare in buone condizioni.)),le cosiddette Murajole, di più alto valore a discapito delle coniazioni in rame di basso nominale. La richiesta dei due viene accolta con una concessione datata 29 Luglio 1797: “La Santità Sua in riflesso delle circostanze esposte nella presente supplica si è degnata benignamente di concedere al ricorrente Marchese Marcello Sciamanna, e Compagno di Terni la facoltà di battere nella zecca già accordatagli per le monete di rame, anche le monete di bassa lega denominate Murajole nel modo e colle condizioni medesime che è stata accordata ad altri, ed a tenore in tutto del contemporaneo Rescritto della udienza stessa di questo” ((Cfr. Ada Bellucci Op. Cit. pp.13)).In nessun documento si fa menzione delle Madonnine da cinque bajocchi che risultano essere effettivamente l’unico nominale di rame battuto a Terni. A mio parere quindi , si deve ritenere che la coniazione di monete in rame ,autorizzata con un contratto del 22 Agosto ((“…e concede il permesso ed opportuna facoltà di poter intraprendere […] la Battitura delle monete tanto di Rame; quanto dell’altre di bassa Lega…”)), era comunque limitata ai soli nominale che si battevano a Roma e ,nell’Urbe, dal maggio dello stesso anno i valori in rame erano stati limitati ai soli 5 Bajocchi. Non ci è noto quando sia iniziata la battitura ma, è accertato , che le murajole furono le prime perché le Madonnine comparvero soltanto dopo la promulgazione del decreto di chiusura delle zecche minori datato 29 Novembre 1797.

2- Veduta di Terni disegnata da Domizio Gubernari presente nell’opera di Francesco Angeloni “ Historia di Terni” 1648 ,Roma – Collezione Privata
2- Veduta di Terni disegnata da Domizio Gubernari presente nell’opera di Francesco Angeloni “ Historia di Terni” 1648 ,Roma – Collezione Privata

Lo attesta una relazione della Tesoreria Generale riguardante il valore della “Moneta erosa in rame coniata a tutto l’anno 1797 da diversi intraprendenti delle Zecche di Stato”.Al termine della lista troviamo: “Terni, Spoleto ambedue ottennero oltre le murajole anche la zecca di Rame, ma di questa moneta non vi è stata battitura alcuna”. ((Cfr. “Terni. Le monete nel Medioevo e la zecca del 1797” Angelo Finetti pp. 75 -76 .)) Il documento citato dal Finetti è privo di data però si può supporre che le monete siano state coniate nel periodo di quindici giorni concessi dal decreto prima della totale chiusura delle zecche o, addirittura , contravvenendo agli ordini di chiusura. La sede della Zecca ,come riporta la Bellucci e successivamente il Passavanti ((Cfr. Ada Bellucci Op. Cit. pp. 3 ; Cfr. Elia Rossi Passavanti “Terni nell’età Moderna” Roma 1939. pp.269 .)), era situata fuori dalle mura cittadine nei pressi di porta S.Giovanni ,al di là del fiume Nera , nell’attuale Via Campofregoso in un locale poi divenuto proprietà della famiglia Rossi ((Vedi Foto n°4)).

Non è certo se il Passavanti abbia visto l’edificio o abbia semplicemente citato la Bellucci certo è che la zona fu pesantemente bombardata e il suo aspetto fu totalmente stravolto.

Immagine
3 – Una coppia di cilindri con gli spartiti per i due baiocchi di Ancona del 1798-1799. Le Madonnine di Terni furono battute con lo stesso sistema – N. Scerni “Tecniche di coniazione alla fine del ‘700” in “Atti dell’Accademia di Studi Filatelici e Numismatici” 2,1-2(1983)

La zecca ,come anticipato sopra, ebbe vita breve infatti non ebbe nemmeno cinque mesi di attività produttiva e sei anni di circolazione delle monete ,che, vennero ritirate , insieme a quelle della Repubblica Romana, con la restaurazione del potere Pontificio con un editto del Cardinale Camerlengo Doria Panphili emanato il 31 Dicembre del 1801. Un successivo editto del 1803 firmato dal Tesoriere Generale in data 15 ottobre 1803 sanciva definitivamente l’uscita dal corso legale delle monete coniate prima del pontificato di Pio VII e ,quindi, quelle di Terni. ((Cfr. Ada Bellucci Op. Cit. pp.4)) Nonostante la sua breve esistenza ,o forse grazie a questa, la zecca di Terni produsse dal punto di vista collezionistico delle vere e proprie rarità che tutt’oggi sono ricercate dai collezionisti ;le più rare sono senza dubbio la Murajola da quattro Bajocchi e la Madonnina da cinque. Ora qui di seguito cercherò di elencarle.

 Guardando le monete ternane dal punto di vista estetico non ci si trova davanti a belle coniazioni come quelle della zecca di Roma infatti presentano soltanto le iscrizioni necessarie per l’identificazione cioè il nominale , la zecca, il pontefice e l’anno di regno ad esclusione della Madonnina. I coni sono stati realizzati da Mercandetti.

4- Foto satellitare della zona dove sorgeva la Zecca . In Arancione è indicata l’antica cinta muraria ; in Blu il corso del fiume Nera; in Rosso l’attuale via Campofregoso e in Verde la zona approssimativa dove era ubicato l’edificio. Foto Google Earth .
4- Foto satellitare della zona dove sorgeva la Zecca . In Arancione è indicata l’antica cinta muraria ; in Blu il corso del fiume Nera; in Rosso l’attuale via Campofregoso e in Verde la zona approssimativa dove era ubicato l’edificio. Foto Google Earth .

Analisi metallurgica di una moneta suberata

Introduzione

Questo lavoro prende spunto da una precedente ricerca sviluppata nella mia tesi di laurea. Partendo da un’analisi che si è rivolta all’osservazione di alcune monete suberate di epoca greca e romana, il naturale proseguo è stato quello di svolgere le mie indagini su un’antica moneta di Marco Aurelio che rappresenta un unicum per la particolare composizione del metallo di suberatura che, anziché essere in argento, è in stagno e rame. Questo particolare lascia una serie di interrogativi di tecnica metallurgica che qui sono stati approfonditi e studiati, la metodologia utilizzata è stata quella della riproduzione, tramite fusione, della stessa lega utilizzata per il tondello e lo strato di suberatura.
Le monete suberate: destinazione e uso in età greca e romana
Il termine suberato proviene dal latino sub aes e indica una particolare classe di monete contraffatte anticamente e costituite da una parte interna in metallo vile, solitamente bronzo o rame, avvolte da una sottile foglia esterna di argento o oro. In francese si definisce “fourrèe”, cioè moneta foderata; più rara la dizione di “monete pelliculate”. Queste coniazioni sono interessanti non solo dal punto di vista strettamente numismatico, ma anche per le considerazioni che ne possono derivare riguardo l’aspetto storico, giuridico, economico e metallurgico.
Questo genere di contraffazioni sono state prodotte fin dalla nascita della moneta, com’è attestato dalla presenza di suberati tra le prime coniazioni di Samo ((ANNA RITA PARENTE, Monete suberate magnogreche: le zecche della Campania, a c. di C. Alfaro et alii, XIII Congreso Internacional de Numismatica (Madrid, 15-19 settembre 2003), Madrid 2005.)) e Mileto ((Si veda l’ecte di Mileto in metallo vile con pellicola di oro depositato presso il Cabinet des Medailles di Parigi (ERNEST BABELON, Traité de monnaies grecques et romaines, Parigi 1901) e gli esemplari suberati della serie dell’elettro ionico-asiatico (EDWARD ROBINSON, Some Electrum and Gold Greek Coins, ed. H. Ingholt, A.N.S., New York 1958, pp. 591-594, n. 9. JOHAN HANGARD, Monetaire en daarmee verwante metaforen, Groningen 1963, pp. 10-12. RAYMOND BOGAERT, Banques et banquiers dans le cités grecques, Leida 1968, pp. 315-318).)) , e la pratica rimase in uso per lungo tempo. In alcuni casi, le monete suberate possono essere considerate dei veri e propri “falsi antichi” coniati da privati cittadini e dunque con resa stilistica approssimativa, dritti e rovesci mal assortiti, peso calante. Non mancano difatti notizie degli storici antichi attestanti la punizione dei falsari mediante pena capitale, a dimostrazione che tale problema nell’antichità era piuttosto serio, ma vi sono ugualmente testimonianze di coniazione di suberati da parte delle autorità statali. Quando suberate si ritrovano i giusti accoppiamenti di conio si possono avanzare due ipotesi: la prima prevede che la coniazione di suberati sia da ricollegare ad una precisa scelta dell’autorità emittente che, mediante tali emissioni, tenta di arginare difficoltà di ordine economico e fenomeni di tipo inflazionistico. A questo proposito si prenda ad esempio l’emissione di suberati dallo stato ateniese stesso per le urgenze determinate da eventi bellici.

La seconda ipotesi mette in relazione la coniazione di suberati ad attività illecite compiute all’interno della zecca stessa dal personale addetto che realizzava falsi utilizzando i conii ufficiali, come testimonia, ad esempio, la condanna a morte di sei responsabili della zecca di Dime in Achaia, rei di aver coniato suberati ((LAVINIA SOLE, Il fenomeno delle “barbarizzazioni monetali” in Sicilia attraverso la documentazione numismatica di Sabucina, in R. Panvini – F. Giudice, Il Greco, il Barbaro, la ceramica attica. Immaginario del diverso, processi di scambio e autorappresentazione degli indigeni, Atti del convegno internazionale di studi (Catania, Caltanissetta, Gela, Camarina, Vittoria, Siracusa, 14-19 maggio 2001), v. IV, Roma 2007, 167-180. p. 4.)).
Il parere degli studiosi non è concorde sull’attribuzione certa di questa classe di monete, secondo il Crawford ((MICHAEL H. CRAWFORD, Roman Republican coinage cit. pp. 560-561.)) i suberati della monetazione romana repubblicana sono tutti falsi di produzione non ufficiale in quanto, a detta dello studioso, uno stato che considerava illegale la contraffazione, tanto da aver costituito la figura del nummularius, cioè un supervisore che si occupava del controllo e dello scarto degli eventuali falsi tra le monete in circolazione, non poteva autorizzarne l’emissione. L’ipotesi dello studioso è piuttosto che tali emissioni siano state coniate in ambienti militari o, comunque, appartenessero a produzioni non ufficiali. Similmente anche le monete derivate da conii ufficiali devono essere considerate il risultato di un abuso privato.
Diverso il caso della monetazione romana imperiale, moltissimi denarii sono suberati e lo stesso Augusto utilizzò questa tecnica per coniare le emissioni destinate al commercio con i popoli più lontani ((ERNESTO BERNAREGGI, Istituzioni di numismatica antica, Cisalpino, Bologna 19853.)). Plinio ((PLINIO, Naturalis Historia, XXXIII, p. 132.)) dal canto suo ci riferisce che già al suo tempo esistevano dei veri e propri collezionisti che cercavano e raccoglievano curiosità di tale genere, pagando per un denario falso svariati denarii autentici.
Il fenomeno è dunque complesso, ai falsi realizzati in maniera fraudolenta venivano affiancati i falsi ufficiali, monete suberate coniate dalle autorità statali e riconducibili a situazioni di emergenza o alla penuria di metallo, a volte finalizzate a trarre in inganno partners commerciali.
Per limitare la diffusione delle emissioni fraudolente e, al contempo, individuarle e sottrarle dal circolante si era soliti “saggiare” le monete, incidendone la superficie per constatare l’effettiva genuinità; le cosiddette “sfregiature” presenti su alcune monete suberate documentano questa pratica. Anche le fonti sono piuttosto esplicite al riguardo. Il decreto di Nicofone del 375-374 a.C. ci informa che ad Atene i Dokimastai erano incaricati di individuare tra le monete circolanti le emissioni fraudolente – per mezzo di tagli – e che le imitazioni erano confiscate e consacrate alla divinità. Altri accertamenti erano effettuati pesando gli esemplari con una bilancia, ascoltando il particolare tintinnio che essi producevano cadendo o odorandole (!) ((A. R. PARENTE, Contesti di rinvenimento, destinazione e uso delle monete suberate in Magna Grecia, RIN, 111, 2010, pp. 109-126. Ved. anche A.R. PARENTE, Monete suberate magnogreche: le zecche della Campania, XIII Congreso Internacional de Numismatica, Madrid 15-19 settembre 2003, a c. di C. Alfaro et alii, Madrid 2005.)).

Come giustamente, e legittimamente, osserva il Bernareggi ((ERNESTO BERNAREGGI, Istituzioni di numismatica antica cit., p. 90.)), è indubbio che si debba considerare se l’uso di circa 3 grammi di rame al posto dell’argento, sommando il costo della manodopera per la preparazione dei tondelli, la laminazione dell’argento e la successiva applicazione permettesse degli adeguati introiti. L’autore nota che in realtà il problema della manodopera era un falso problema poiché il lavoro era affidato a schiavi dal costo pressoché nullo, inoltre, 1 grammo di argento era acquistato con circa 240 grammi di rame, da qui l’altissima convenienza dell’operazione che in caso di più coniazioni permetteva un notevole profitto, giustificando pienamente la macchinosa lavorazione.

Moneta e Memoria

Giunone Moneta e moneta, il tempio della dea ammonitrice e la zecca di Roma.

Dedicato da Furio Camillo alle calende del mese di giugno del 345 a.C. e sorto sui resti dell’ormai distrutta dimora di Marco Manlio Capitolino (( Tito Livio, Ad Urbe condita, VI, 20; Plutarco, Camillo, 36; Ovidio, Fasti, VI, 183-186. )), il tempio di Iuno Moneta, com’è noto, ospitava tra i locali ricavati nel suo podio l’officina della zecca di Roma. E’ altresì risaputo che l’antica pecunia, ovvero il prodotto coniato nei locali annessi all’edificio sacro, finì con l’essere identificata utilizzando proprio il termine Moneta, epiteto specifico della dea titolare del culto sul quale, per completezza sia storica che etimologica, è bene soffermarsi.

L’ammonimento che diede origine all’epiteto stesso, udito secondo la tradizione nel tempio della divinità, invitava i romani a sacrificare una scrofa pregna a seguito di un terremoto (( Marco Tullio Cicerone, De divinatione, I, 101. )) e sempre a guisa di ammonimento pubblico fu edificato il tempio di Giunone Moneta, sorto proprio sul sito ove in passato vi era la casa di colui che osò ambire al titolo di re e per questo gettato dalla rupe Tarpea.
Anni prima del voto di Furio Camillo un altro avvertimento dato dalla dea, stavolta per tramite delle sue sacre oche, consentì allo stesso Marco Manlio, allarmato dallo starnazzare degli animali, di respingere un furtivo attacco portato al Campidoglio dai Galli di Brenno, impegnati ad assediare la rocca di Roma (( Tito Livio, Ad Urbe condita, V, 47. )).

Fatto derivare dagli stessi romani da monere, il termine moneta ha origine, più precisamente, dalla radice indoeuropea man, in latino me/on, la medesima di altre terminologie la cui menzione è degna di considerazione.

In indoeuropeo le radici man e mnā avevano il duplice significato di “pensare” e “ricordare” ed il suono prodotto dalla consonante m fu scelto dagli stessi indoeuropei per rappresentare la nozione di tutto ciò che, esistendo, ha un “limite” e una “misura”: mater, madre, colei che si occupa dei limiti naturali della vita umana; mensura, misura, che si rapporta a un limite stabilito; mensis, mese, che possiede una misura legata alla rivoluzione della luna, da cui menstrualis, mensile. Come per moneo-monere, direttamente dalla radice manme/onmens-mentis, mente; maneo-manere, soffermarsi a pensare; monitus, avvertimento; monumentum, che fa ricordare (( Franco Rendich, Dizionario etimologico comparato delle lingue classiche indoeuropee, pp.283 e 289. )).

Un indiscutibile legame era presente tra Moneta e monete ma andando oltre la comunemente accettata derivazione che spiega il tutto quale conseguenza di una condivisione dell’edificio, sarebbe forse più utile porsi una differente domanda: perché era stata scelta quell’area, dedicata ad una divinità dai tratti piuttosto accentuati, per installare la zecca ufficiale di Roma? Questo, in sostanza, è quanto si chiedeva il Sabbatucci anni fa (( Dario Sabbatucci, La religione di Roma antica, p.235. )) e più recentemente nuovi studi hanno permesso di evidenziare ulteriormente le particolari caratteristiche di questa figura divina, donando ad essa una particolare identità non sempre spiegabile quale epiclesi di Giunone.

Per prima cosa è interessante notare che, tra le fonti antiche, Livio tende ad utilizzare alternativamente sia la forma Iuno Moneta che solo e semplicemente Moneta, quasi come se questo nome fosse più di un semplice epiteto (( Daniele Miano, Monimenta. Aspetti storico-culturali della memoria nella Roma medio repubblicana, p.72. )):

Tito Livio, Ad Urbe condita

[quote_box_center]VI, 20, 13: adiectae mortuo notae sunt: publica una, quod, cum domus eius fuisset ubi nunc aedes atque officina Monetae est, latum ad populum est ne quis patricius in arce aut Capitolio habitaret

VII, 28, 4: Dictator tamen, quia et ultro bellum intulerant et sine detractatione se certamini offerebant, deorum quoque opes adhibendas ratus inter ipsam dimicationem aedem Iunoni Monetae vovit

VII, 28, 6: Anno postquam vota erat aedes Monetae dedicatur C. Marcio Rutulo tertium T. Manlio Torquato iterum consulibus[/quote_box_center]

Il ducato di Venezia – Comparazione stilistica dei conii attraverso i secoli

PREMESSA

Iniziando questa ricerca ero ben conscio della difficoltà di elencare le varie evoluzioni stilistiche del ducato (poi zecchino) che si sono succedute in oltre cinquecento anni di emissioni.

Pur avendo rinunciato da subito ad elencare quelle differenze dovute ad errori di conio, ovvero all’esistenza di lettere retrograde o mancanti nella legenda, oppure la diversa interpunzione in essa presente, perché in gran parte già censite ed analizzate in specifiche e ben più corpose opere, mi sono trovato a valutare centinaia di “variabili” differenti dai casi sopra enunciati e della cui esistenza avevo sottovalutato la portata.

Dall’attento esame di moltissime monete sia in internet, sia in cataloghi d’asta ed altre pubblicazioni, ho avuto modo di rilevare che, pur nell’ambito del medesimo dogato, le tipologie di conii adottate erano parecchie e lo erano tanto di più se il dogato aveva avuto una durata di molti anni.

Non poteva che essere così, giacché stiamo parlando di conii e quindi di monete, fatte a mano e conseguentemente con tantissime differenze, anche minime, le une dalle altre; differenze in gran parte dovute al “cambio di mano” degli intagliatori dei conii; persone differenti che nel tempo si sono succedute nel medesimo ruolo; ciascuna con le proprie capacità artistiche più o meno accentuate ed il proprio gusto artistico.

Non ho voluto elencare tutte queste differenze; non sarebbero state sufficienti queste poche pagine ed il lavoro avrebbe preso necessariamente un “taglio” differente, più analitico ed anche meno “discorsivo”.

Ad ogni buon conto qualche licenza me la sono presa e talune di queste differenze esistenti tra i tondelli l’ho riportata, ma solo perché a mio giudizio poteva essere importante evidenziarle e correlarle al contesto principale.

Ringraziamenti

Ringrazio gli Amici: Eros Guglielmo, Mario Limido, Matteo Rongo e Roberto Cecchinato, per la loro scrupolosità e attenzione, nonché per tutti i suggerimenti che non mi hanno fatto mancare.

LA NASCITA

“1284, die ultimo octubris, capta fuit pars quod debeat laborari moneta auri communis, videliget LXVII pro marcha auri, tam bona et fina per aurum, vel melior, ut est florenus, accipiendo aurum pro illo precio quod possit dari moneta pro decem et octo grossi; et fiat cum illa stampa que videbitur domino duci et consiliariis et capitibus de quadraginta et com illis melioramentis que eis videbitur; et si consiliarum est contra sit revocatum quantum in hoc. Pars de XL; et erant XXVIIII de quadraginta congregati ex quibus voluerunt hanc partem XXII et septem fuerunt non sinceri et nullus de non”.

Questo , in sostanza, è l’atto di nascita del ducato veneziano; l’unico scritto dal quale possiamo rilevare le caratteristiche che questa moneta doveva avere, cioè:

1) Prodotto con oro tanto fino (o anche più) quanto lo era il fiorino di Firenze;

2) Tagliato a 67 pezzi per marco (il marco, pari a 8 once, pesava gr. 238,499);

3) Valente 18 Grossi

Leggiamo anche che le immagini da coniarvi dovevano essere decise dal Doge e dai suoi consiglieri ed anche dai capi della “Quarantia” (( Quarantia: Magistratura composta da quaranta membri che, in questa epoca, sopraintendeva al funzionamento della zecca ed alla pianificazione dell’esercizio finanziario dello Stato. )).

La legge venne votata da soli 29 membri presenti della Quarantia che, con 22 voti favorevoli e 7 contrari, decretarono la sua nascita.

Malauguratamente non ci è pervenuto alcun altro scritto riguardante l’aspetto progettuale della legge, non sappiamo né chi furono i promotori, né le esigenze politico/finanziarie che determinarono questa nascita.

Questo primo ducato, coniato sotto il dogato di Giovanni Dandolo (1280 – 1289), è caratterizzato da uno stile ancora medioevale, eppure è chiaro l’intento dell’incisore di inserire figure più realistiche e meno ieratiche rispetto al Grosso; notiamo infatti che i personaggi inseriti nel ducato si presentano nel diritto in posizione inversa rispetto al Grosso e non sono più in un atteggiamento statico e di parità; nel ducato il Doge è inginocchiato e sottomesso a San Marco.

Sono più curati i dettagli dei visi e delle vesti e questo lo rende più moderno, pur se alcuni dettagli sono vistosamente fuori proporzione e soprattutto il corpo del Doge risulta tozzo e con gli arti non propriamente conformi alla figura umana; le lettere che compongono le legende sono di tipo gotico. (Fig. 1)

DIRITTO

Al diritto della moneta si nota a sinistra San Marco che, in piedi e rivolto con il busto a destra, con la stessa mano offre lo stendardo al Doge che è rivolto ed inginocchiato davanti a lui.

Il Santo, con tanto di barba, è nimbato da un cerchio di perline e la sua veste pare una toga avvoltolata sul corpo e con un lembo gettato dietro la spalla sinistra, mentre la spalla ed il braccio destro sono coperte da una tunica. La mano destra impugna l’asta dello stendardo che ha in cima una bandiera che termina con le caratteristiche frange del vessillo veneziano.

Il Doge è rappresentato con gli abiti che gli erano propri e che indossava nel XIII secolo; veste una preziosa tunica con maniche lunghe (dogalina) strette ai polsi e ricche di bordure; ha il mantello con bavero o collare (mozzetta) e il tutto è foderato di pelliccia; in testa indossa la “rensa”, cioè quella cuffietta bianca di lino finissimo proveniente da Reims che copre anche le orecchie e che, a seconda dell’epoca, viene allacciata sotto il mento con due stringhe oppure no; in questo si può chiaramente scorgere il nodo e sopra

questa indossa il corno, la corona veneziana. Non è ancora quello caratteristico, rigido e con la sua forma a punta, questo è invece ancora un berretto morbido, diviso in due parti separate tra loro da un bottone o da un mezzo anello o da un piccolo fiocco e ricorda i berretti in uso nel vicino oriente. In ginocchio, Egli impugna con entrambe le mani l’asta del vessillo, che gli offre San Marco.

La legenda del diritto è costituita da:

Alle spalle di San Marco: S.M.VENETI

Alle spalle del Doge: il proprio nome abbreviato in: IO.DANDVL.

Lungo l’asta, a destra e in verticale sotto il vessillo: DVX

ROVESCIO

Al rovescio viene riportata l’immagine di Cristo Redentore, non è più assiso in trono come sul Grosso, ma è in piedi e la Sua figura è frontale; già questo costituisce una novità dal punto di vista iconografico; ha i capelli lunghi e la barba ben curata e la mano destra, di poco elevata rispetto al suo fianco, è in atto benedicente; la sinistra, invece, trattiene il Vangelo appoggiato al Suo petto. E’ anche Lui abbigliato con una toga e si nota uno dei lembi riportato sul braccio sinistro. La figura è inserita in una mandorla perlinata, all’interno della quale, poste di fianco al Cristo, ci sono nove stelline a cinque punte; quattro a sinistra e cinque a destra. L’aureola del Redentore è rotonda, perlinata e si intravedono, al suo interno, dietro la testa di Cristo, i raggi a mo’ di Croce; l’aureola si sovrappone e fuoriesce dalla mandorla; così pure accade per i suoi piedi.

La legenda del rovescio è costituita dalla scritta:

SIT.T.XPE.DAT.Q.TV.REGIS.ISTE.DVCAT , che sta per “Sit tibi Christe datus quem tu regis iste ducatus”; che significa: a te o Cristo sia dato questo ducato che tu reggi.

Né nel diritto, né nel rovescio c’è l’esergo.

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Il perché i ducati non abbiano mai riportato il ritratto realistico del Doge sotto il cui dogato furono battuti e abbiano invece mantenuto pressoché immutate ed impersonali le immagini iconografiche sopra descritte, è una particolarità veneziana che trae origine da una legge voluta dal Maggior Consiglio (( Maggior Consiglio: Massima magistratura il cui accesso era ereditario, formata da tutti i componenti di sesso maschile delle famiglie nobili; era preminente su tutte le altre magistrature e da essa dipendevano tutte le leggi e questioni dello Stato. )) nel 1474; però ancor prima di tale legge, questa era già una consuetudine.

Il Doge, infatti, doveva con la sua figura rappresentare unicamente il potere dello Stato e mai il potere personale.

A tale proposito il “Codice Cicogna / nr. 3277” cita testualmente:

“Il capo all’apice di questo gran Corpo (Repubblica), che gode non solamente la dignità suprema e la preminenza ne’ luoghi, negli abiti, nell’abitazione, nel titolo di Serenissimo; ma ancora risponde per nome del Pubblico agli Ambasciatori, e ministri de’ Principi; col suo nome (non con la sua immagine) si improntano le monete…..e benché negli affari pubblici non può da se solo deliberare….”

Oggi sappiamo che, pur non essendo mai stata riportata l’immagine esplicita di un Doge sul ducato, qualche analogia o rassomiglianza tra il viso del Doge regnante e quello riportato sui ducati emessi a suo nome, può essere forse avvenuta, ma di questo parleremo più avanti.

L’immobilizzazione iconografica del Ducato, fu dovuta anche al fatto che questo era coniato per soddisfare i pagamenti a lunga distanza e doveva necessariamente rassicurare con un marchio ben riconoscibile una quantità impressionante di commercianti, funzionari, nonché di governi di vari stati che intrattenevano rapporti d’affari con la Serenissima e non solo, diversissimi tra loro per lingua, religione, cultura e consuetudini.

Non si può trascurare nemmeno il fatto che, in un periodo nel quale l’analfabetismo era diffusissimo, il disegno impresso sulla moneta, proprio perché ripetitivo, funzionava come garanzia di qualità e stabilità.

Proprio grazie a queste particolarità possiamo dire che il ducato fu la moneta più imitata, contraffatta e falsificata nel tempo; solo questo basterebbe a dimostrare il favore che incontrò in tutti i mercati.

In Spagna, nel 1487, Ferdinando ed Isabella diedero ordine di coniare una imitazione del ducato veneziano, in oro, “porque se hallo que las monedas de ducatos son mas comunes per todos los reynos e provincias de christianos e mas usata en todas las contrataciones”.

Altro fatto curioso, ma non eludibile a riguardo del ducato, fu il favore e la popolarità che ebbe tra le popolazioni del Levante cristiano, in parte dovuta all’errato convincimento che le effigi di San Marco e del Doge, fossero, in verità, quelle di Costantino Magno e della madre Elena.

I Talleri 1780 coniati in Italia

Riassunto

Il tallero 1780 di Maria Teresa è una moneta sottovalutata dai collezionisti probabilmente per il fatto di essere stata riconiata ininterrottamente fino ai giorni nostri. In particolare molti ignorano che in Italia è stato coniato non solo nella zecca di Roma ma anche a Milano, Venezia e forse Firenze. Non solo, ma, circostanza che è di particolare interesse per il numismatico, esistono molte incertezze su come distinguere questi talleri da quelli coniati in oltre 125 differenti varianti in tutto il mondo nell’arco di oltre due secoli. Questo articolo vuole contribuire a far luce sulle differenze che permettono di identificare i talleri coniati da zecche italiane e riporta le informazioni scaturite dal confronto di opinioni tra alcuni collezionisti e studiosi sul forum.

Brevi Biografie degli Incisori Vaticani

BALDESSARRI Mauro

Medaglista nato a Rovereto il 21 luglio 1942. Ottimo scultore, si è dedicato essenzialmente all’arte nummaria, rinverdendo antichi fasti dei nativi della sua terra. Dotato di tecnica eccezionale, eccelle nella manualità, mentre i suoi temi, soprattutto religiosi, hanno un vago sentore di arte etnica, dovuto ai suoi lunghi soggiorni in Africa. A Milano, dove vive e lavora, modella medaglie per vari Stati cooperando con importanti stabilimenti di coniazione.

BERTI Antonio

Nacque a S. Pietro a Sieve nel 1904 e fu allievo di Libero Andreotti, che lo indirizzò verso la pittura; nei suoi quadri, il Berti mise tutta la dolcezza del natio paesaggio toscano. Soltanto dal 1934, si dedica completamente alla scultura ottenendo importanti commesse e creando famosi monumenti. Già affermato modellatore e medaglista, ricevette importanti incarichi da varie nazioni sia per la scultura monumentale sia per la fattura di conii, anche monetali. Eccellente ritrattista, in cui rivela le sue origini calligrafiche, il Berti ha saputo aumentare le possibilità del materiale scultoreo di aderire allo spazio fisico, quasi come se le sue opere fossero fotogrammi in rilievo. E’ morto a Firenze nel 1990.

BIANCHI Francesco

Medaglista nato a Roma il 3 ottobre 1842, secondo genito di Giuseppe Bianchi. A venti anni già collaborava con il padre alla Zecca di Roma e lo aiutò quando le condizioni della salute paterna peggiorarono. Subito dopo il 1870, passò al servizio della Regia Zecca italiana, ma seguitando ad incidere i conii per le medaglie papali. Fu anche autore di bronzetti e targhe e, qualche volta, entrò in contrasto con Leone XIII, per il quale realizzò tutte le medaglie ufficiali, tanto che nel corso del 1900 ottenne la nomina ad “Incisore dei Sacri Palazzi Apostolici”, dopo essersi messo in pensione nei riguardi dello Stato italiano. Fece medaglie anche per Pio X e per Benedetto XV. Stremato nel fisico e nella psiche, Francesco Bianchi non riuscì a terminare la medaglia dell’anno V di papa Della Chiesa, perché morì nel proprio appartamento romano il 4 aprile 1918. 

NOTA PERSONALE: 

Forse non era stato un ‘’medaglista’’ completo,certo artisticamente non all’altezza del padre, ma in un periodo travagliato e difficile, politicamente, socialmente e culturalmente, aveva saputo mantenere viva la grande tradizione dei ‘’medajari der Papa’’, riuscendo, pur nei limiti di certi stilemi legati all’ufficialità, ad accompagnare la medaglia pontificia in pieno Novecento e talvolta a dare una libera e personale interpretazione dell’arte classica. 

BIANCHI Giuseppe

Incisore italiano, nato a Cantalupo di Tivoli il 22 Settembre 1808 e trasferitosi a Roma giovanissimo, seguendo il padre, piccolo impiegato statale. A soli 15/quindici anni risulta impiegato presso la Calcografia Camerale ad incidere i rami tipografici; più tardi aprì un negozio di sigillaro. Si cimentò nell’arte del conio in età matura, dopo essersi impratichito dei suoi segreti frequentando la Scuola della Medaglia dell’Ospizio Apostolico. Nel 1851 realizza il medaglione in onore di Pio IX con l’altare della basilica lateranense. Di poi, parecchie medaglie annuali ma sempre con contratto privato, stipulato con il Direttore della Zecca di Roma; dentro la quale entrò in pianta stabile soltanto a partire dal 1859, con incarichi amministrativi di secondo piano, pur realizzando ininterrottamente le medaglie annuali degli ultimi 15 anni di Pio IX. Rifiutò di passare “al servizio dei Piemontesi” dopo il 1870, limitando la propria attività soltanto alle committenze del Vaticano; sebbene, a casua della salute malferma, negli ultimi tempi di vita, si facesse aiutare dal figlio Francesco. Giuseppe Bianchi ottenne a giugno del 1877 il tanto agognato titolo di “Incisore dei Sacri Palazzi ex Pontificis voluntate”; pochi mesi dopo, a novembre, morì.

BIANCINI Angelo

Dal borgo natio di Castelbolognese, dove vide la luce nel 1911, si trasferì a Firenze per seguirvi gli studi d’arte. Nella città toscana, ebbe modo di entrare in contatto con i migliori intellettuali fiorentini, nel periodo fra le due guerre. Fu invitato alla Biennale di Venezia del 1934 e da allora in poi, ha partecipato a numerose manifestazioni ottenendo sempre grande successo. Dallo stile armonico ma vigoroso, eccelse nella scultura a tema religioso, e portò nelle sue opere la maestria di decoratore di ceramiche, materia che per anni insegnò a Faenza. Realizzò molti modelli per medaglie, in special modo per il Vaticano e per la Repubblica di San Marino. E’ morto a Firenze nel 1988.

BODINI Floriano

Artista completo, nacque a Gemonio nel 1933 e studiò a Milano, sotto Francesco Messina. Le sue opere sono fra gli esempi più validi della scultura italiana moderna. Molti suoi capolavori sono esposti in importanti musei. Dopo aver maneggiato legno e bronzo, si cimentò anche con il marmo, ottenendo grande successo tanto da insegnare all’ Accademia di Carrara, della quale è stato anche Direttore. Il suo stile è molto aperto all’influenza europea, giacché ha ricoperto anche la cattedra all’università di Darmstadt. Autore di grandi monumenti pubblici, specialmente legato a Paolo VI, il Bodini ha cominciato a modellare medaglie nell’ultimo trentennio del XX secolo, dando vita ad opere d’intensa concettualità con un modellato assolutamente personale. Si è spento a Milano il 2 luglio 1988.

BONANOTTE Cecco [Francesco detto …]

Nato nel 1942 a Porto Recanati, è sicuramente uno degli artisti più rappresentativi della sua generazione, le cui ubbìe ha trasfigurato nel bronzo della scultura e dei pannelli. Eclettico , leggero ed elegante, il Bonanotte, che vive e lavora a Roma, ha saputo trasfondere nella medaglia l’armonia che sta alla base della sua arte, giacché nel tondello metallico ha trovato il miglior veicolo per dar saggio anche della sua perizia da calligrafo.

BRANDT Henri François

Nato a Le Chaux de Fond, in Svizzera, il 27 gennaio 1789, studiò disegno e poi incisione a Parigi a la Maison de la Monnaye sotto il Droz, specializzandosi nell’intaglio di lastre tipografiche e di conii. Avendo vinto un concorso, fu mandato a Roma all’ Académie Française e fece il primo conio di una medaglia papale, alludente alla liberazione di Pio VII. Francesco Mazio, Direttore della Zecca, si accorse dell’abilità dell’artista e lo chiamò nello stabilimento monetario papale ad incider i conii monetali; ma gli affidò pure la fattura di due medaglie annuali consecutive di papa Chiaramonti. Il Brandt divenne anche un ricercato intagliatore di cammei e di rami tipografici. Rifiutò le offerte di Luigi XVIII re di Francia, ma accettò quelle del re di Baviera di trasferirsi alla Zecca di Monaco. Partito da Roma nella primavera del 1818, l’artista arrivò nella città bavarese dopo un periglioso viaggio ed iniziò immediatamente il proprio lavoro. Morì a Monaco il 9 maggio 1845, dopo aver realizzato mole immensa di conii medaglistici e monetari.

CARDARELLA Francesco

Scultore e medaglista nato a Trieste nel 1945, ma siciliano di adozione. Nel suo atelier di Palazzolo Acreide nel siracusano, relizza modelli per sculture bronzee e per medaglie in cui trasfonde con semplicità ed eleganza, numerosi temi classici che egli rivisita con un’eccezionale purezza di tratto e di morbidezza di linee.

CALVELLI Ettore

Nato a Treviso nel 1912, viene considerato fra i migliori medaglisti moderni, per la quantità e la qualità dei modelli realizzati. Ottimo scultore, ha dedicato gran parte della vita all’insegnamento; artista dallo stile inconfondibile, ha trovato valida forma di espressione nella medaglistica, approntando centinaia e centinaia di modelli, soprattutto a oggetto sacro, che egli prediligeva, pur senza trascurare la scultura a tutto tondo. E’ morto a Ponte di Legno, città in cui risiedeva da anni, il 5 gennaio 1997.

CERBARA Giuseppe

Incisore di gemme e di conii, nato a Roma il 10 luglio 1770. Si acquistò fama come incisore di cammei e come intagliatore di rami calcografici durante il governo pontificio prima e quello napoleonico successivamente. Ascritto all’Accademia di S. Luca nel 1812, da questa data fece le prime esperienze come medaglista. Partecipò al concorso per succedere al Mercandetti come “incisore camerale” nel 1821, vincendolo ex aequo insieme a Giuseppe Girometti. Il Cerbara, insieme al fratellastro Nicola, svolse, con molto impegno, anche l’attività didattica alla Scuola della Medaglia presso l’Ospizio Apostolico ed ottenne anche da Leone XII, il titolo di “incisore particolare de’ Sommi Pontefici” con l’incarico di incidere fregi e quant’altro sugli oggetti di oreficeria destinati ai Sacri Palazzi. Pur non tralasciando la professione privata, che gli rendeva lautamente, Giuseppe Cerbara lavorò sempre in Zecca, al servizio di ben quattro Pontefici per cui realizzò conii monetali e medaglistici. Ottantacinquenne, fu messo a riposo ma Pio IX gli concesse un vitalizio, ammirato della sua arte. Giuseppe Cerbara morì a Roma il 6 aprile 1856.

CERBARA Nicola

Nato a Roma il 29 febbraio 1796, diventò intagliatore di cammei e scultore di coralli aprendo bottega propria. Pur avendo lavorato nella Zecca papale al restauro e rifacimento di conii e di punzoni fin dagli Anni ’20, vi entrò stabilmente solo a partire dal 1830, come “sovrastante” del fratellastro Giuseppe. Insieme a costui, Nicola Cerbara diresse anche la “Scuola della Medaglia” presso l’Ospizio del S. Michele, vera fucina di futuri medaglisti. Il Cerbara incise moltissimi conii per monete e per medaglie, nonché sigilli ufficiali, ed ebbe fiorente attività privata. Compromesso politicamente con la Seconda Repubblica Romana del 1849, al ripristino del potere pontificio fu chiamato, del tutto privatamente e quasi di nascosto, ad incidere la medaglia di massimo modulo di “Gaeta” per papa Pio IX. Dopodichè, dimessosi da tutte le numerose e prestigiose istituzioni culturali di cui faceva parte, fu costretto all’esilio nel 1852. Nicola Cerbara morì a Montepulciano il 28 giugno 1869. 

CHUNG Yang Chen

Medaglista cinese, essendo nato a I Lan, nell’isola di Taiwan, nel 1951 che ha riscosso i maggiori riconoscimenti internazionali nel proprio campo. Ha studiato presso la Scuola dell’Arte della Medaglia di Roma, dove ha affinato la propria tecnica sia concettuale che manuale. Unisce tratti realistici a quelli fantastici tipici del proprio Paese, in una commistione di eccezionale impatto emotivo. 

CONTRI Gianni 

Fra i più rappresentativi artisti italiani contemporanei, è nato ad Ancona nel 1938; poeta e pittore figurativo, passa ben presto al surreale e all’informale. Nella scultura, preferisce il legno e il ferro ai materiali tradizionali. Esponente di spicco della “Transavanguardia”, il Contri abbandona la pittura per esprimersi attraverso la scultura e l’incisione. Orafo di eccezionale abilità e grafico di alta perizia tecnica, ha ricevuto moltissime committenze per monete e medaglie.

CROPANESE Filippo

Pochissime le notizie biografiche su questo incisore di cui sono ignoti la data e il luogo di nascita. La sua prima medaglia, in onore del cardinale Enrico di York, risale al 1756. E’ probabile che fosse allievo o praticante di Ferdinando Hamerani, che sostituì allorché questi fu allontanato dalla Zecca. Il Cropanese, pur senza ricevere mai alcuna nomina ufficiale, incise conii di medaglie pontificie dal 1771 al 1774. Dopo questa data, non si hanno più notizie di lui.

CVENGROSOVA Ludmilla

 Artista slovacca, nata a Radosina il 17 aprile 1937, fin dalla giovanissima età ha dato dimostrazione della propria abilità. Diplomata all’Accademia d’Arte di Bratislava, città in cui vive e lavora, nei primi Anni ’60 si è data alla modellazione di medaglie. Caratterizzata da un tocco morbido nelle linee e dall’attenta e tribolata ricerca del sacro, la sua opera è esposta nei maggiori musei mondiali.

DZWIGAJ Czweslaw

E’ forse l’artista moderno più rappresentativo della Polonia, essendo nato a Nowy Wisnicz, nei pressi di Cracovia, il 18 giugno 1950. Ha iniziato giovanissimo la sua collaborazione con la Chiesa cattolica, realizzando parecchi monumenti d’arte sacra, per passare alle grandi composizioni bronzee a tutto tondo. L’artista è famoso anche per le sue battaglie civili in difesa della libertà, della pace e della tolleranza.

FABBRI Agenore

 Artista italiano nato a Barba, nei pressi di Pistoia, nel 1911. Negli Anni ’30, frequenta i circoli culturali di Firenze che influenzano la sua arte in senso modernista. Nel secondo dopoguerra, passa decisamente all’Espressionismo, ed attraverso un’arte tutta propria, fatta di spacchi e tagli nei materiali e giochi policromi, accentua un’esasperata drammaticità espressiva. Celebri le sue opere in bronzo che hanno per soggetto gli animali. Il Fabbri eccelse essenzialmente nella modellazione della ceramica, che elevò al rango di arte scultorea vera e propria. E’ morto a Savona il 2 novembre 1998.

FAZZINI Pericle

Tra i più celebri artisti italiani del XX secolo, nacque a Grottammare il 4 maggio 1913. Dopo le prime esperienze nella falegnamerìa patrerna si trasferì a Roma, dove affinò la propria tecnica. Avendo esposto nelle maggiori mostre europee, nel 1935 apre un proprio studio in via Margutta. Profondamente segnato dall’esperienza bellica, le sue opere esprimono la sofferenza dell’umanità riscattata dal soffio divino, tant’è che viene definito lo “scultore del vento”, per l’estrema leggerezza che egli seppe trasfondere nel metallo. Autore di numerosi bozzetti per monete e medaglie, fu legato da personale amicizia con Paolo VI, che gli affidò la scultura della “Resurrezione” nell’Aula Nervi e con Giovanni Paolo II. Il Fazzini è morto a Roma il 4 dicembre 1987.

FUSCO DANIELA

Nasce a Roma il 21 giugno 1969. Si forma presso la Scuola dell’Arte della Medaglia. Come allieva del Veroi ha collaborato alla realizzazione della copia della statua di Marco Aurelio, della Colonna Antonina e di altri monumenti antichi. Dopo aver inciso una serie monetale per il Vaticano, nel 2002 ha vinto il concorso internazionale per la realizzazione del monumento alla “Lira italiana”, posto a Rieti. Autrice di molte medaglie per Enti pubblici e privati, ha disegnato la “annuale” del 2008 per il regnante Benedetto XVI.

GALLO Oscar

Nato a Venezia il 20 luglio 1909, si trasferì giovanissimo con la famiglia a Prato, dove frequentò il liceo artistico. Soggiornò a lungo all’estero, dove fu influenzato dalle nuove tendenze pur senza mai rinunciare ad un classicismo rivisitato, il Gallo diventò titolare della cattedra di scultura all’Accademia di Belle Arti di Firenze, incarico che tenne per molti anni. Morì nella città lagunare, dove aveva il proprio ateliere, nel 1994.

GIAMPAOLI Pietro

Incisore italiano nato a Buja, in Friuli, nel 1898. Fece le prime esperienze nell’officina paterna, poi andò a studiare all’Accademia di Brera e a Venezia. Trasferitosi a Roma, si diede alla medaglistica, specialmente quella fusa in cui eccelleva, ricevendo numerose commitenze da privati. Nel 1936, il Romagnoli lo volle come incisore capo alla regia Zecca italiana. Da allora, la carriera del Giampaoli divenne fulgida. Considerato fra i più grandi incisori contemporanei per sapienza e per abilità tecnica, realizzò conii per monete e medaglie di molti Paesi europei, oltreché per l’Italia e per il Vaticano. Fu Giovanni XXIII ad affidare al Giampaoli, al quale lo legava profonda e sincera amicizia, la realizzazione delle proprie medaglie ufficiali, dopo la morte del Mistruzzi. Il Giampaoli assolse alla perfezione il gravoso compito, anche per i primi tre anni del regno di Paolo VI. Le novità in senso modernistico introdotte in curia, gli tolsero tuttavia questo incarico. Pietro Giampaoli è morto a Roma nel febbraio 1998, ultracentenario.

GIANDOMENICO (Di Giovandomenico detto…) Sergio

Incisore italiano, fu assunto nel 1947 alla Zecca di Roma, città in cui è nato il 23 novembre 1924. Dopo aver frequantato la Scuola dell’Arte della Medaglia, è diventato incisore-capo. Realizzò numerosi conii monetali e di medaglie per numerosi Paesi, avendo dedicato l’intera sua attività all’arte nummaria. Artista dotato di eccezionale manualità, mostra ottima destrezza nell’equilibrio dei volumi e grande capacità di inserire armoniosamente le figure nel ristretto spazio del tondello metallico.

GIANNETTI Gino [Luigi detto….]

 Nato a Montorio Romano, nella bassa Sabina, nel 1951, è autodidatta in pittura: i suoi primi quadri sono caratterizzati da un ipercolorismo di natura espressionista. Negli Anni ’80 si è dedicato esclusivamente alla scultura, sotto la guida di Pericle Fazzini, pur senza dimenticare l’attività di incisore grafico. Artista dotato di ferrea tecnica, trasfonde nelle proprie opere il linguaggio della propria utonoma invenzione, attraverso contrapporsi di masse che derivano da un preciso etimo rinascimentale.

GIROMETTI GIUSEPPE

Incisore, gemmografo ed orafo, Giuseppe Giormetti vide la luce a Roma il 7 ottobre 1780. Apprendista del Canova per la scultura, fu, per l’incisione dei conii, anche allievo del Mercandetti, al quale successe nel 1821, seppur in alternanza con Giuseppe Cerbara. Apprezzato incisore di pietre dure, campo nel quale aveva acquisito grande fama, fu soprattutto medaglista sia per lo Stato pontificio sia per i privati. Entrato in contrasto con Giuseppe Cerbara per motivi economici e di prestigio, Giuseppe Girometti ebbe la sventura di vedere il proprio figlio Pietro coinvolto in un processo per connivenza con la II Repubblica Romana. Da queste vicissitudini, Giuseppe Girometti non si riprese mai, anzi, colpito da grave malattia, rifiutò le cure mediche e si spense il 17 novembre 1851; fu sepolto in S.Maria del Popolo e per la sua tomba, aveva personalmente scolpito l’autoritratto e l’epitaffio.

GIROMETTI Pietro

Incisore nato a Roma il 28 settembre 1811, secondo maschio di Giuseppe Girometti. Ebbe un’ottima istruzione e nel 1831 già lavorava in pianta stabile alla Zecca con l’incarico di rinettare i conii. Al 1837 risalgono le sue prime medaglie per Gregorio XVI. Insieme al padre ed ai fratell(astr)i Cerbara, Pietro Girometti aveva intrapreso l’emissione di una serie di medaglie dedicate agli Italiani Illustri che non ebbe molto successo. Ebbe il grado di “vice incisore soprastante” nel 1847 e, suo malgrado, fu costretto a ricoprire il ruolo di Direttore della Zecca di Roma, durante il periodo della II Repubblica Romana. Il processo che ne seguì, al ritorno del Papa, tuttavia lo scagionò completamente da ogni accusa, ma gli costò l’allontamento dalla Zecca, nella quale fu riassunto, ma con grado inferiore a quello precedentemente ricoperto. Fece medaglie, tra cui le annuali e quelle della Lavanda, ma sempre grazie ad un contratto ad personam con le autorità di Zecca. Pietro Girometti morì a Roma il 13 luglio 1859 e fu sepolto in S. Maria del Popolo, accanto al padre. Solo qualche anno più tardi, grazie alla generosità di amici, fu possibile ergere la lapide, da lui stesso disegnata, sul suo sepolcro.

GRECO Emilio

Sicuramente fra i più famosi artisti italiani, Emilio Greco nacque a Catania l’ 11 ottobre 1913. Appena ventenne, iniziò ad esporre, dando forma alla propria natura artistica , ispirata agli ideali di solidità e di chiarezza mediterranea. Nell’immediato dopoguerra si trasferì a Roma ed insieme a Guttuso, Manzù, Marini e tanti altri diede vita al “gruppo neorealista”, determinato anche da ben precisi orientamenti sociali e politici. La fama di Emilio Greco, attraverso le sue opere, si è diffusa in tutto il mondo. Autore di importanti monumenti bronzei, è stato anche ottimo disegnatore ed eccellente modellatore per medaglie; in alcune di queste, l’artista ha trasferito il suo “senso della vita che è molto breve, per chi non ha speranza dell’aldilà”. Emilio Greco è morto a Roma nel 1995.

HAMERANI ALBERTO

 Primo esponente italiano della più importante famiglia di incisori che abbia mai lavorato al servizio dei papi, Alberto Hamerani nacque a Roma il 6 ottobre 1620 da Johann Hermannskircher, artigiano bavarese specializzato nell’incisione di caratteri tipografici, e da Margherita Corradini, figlia di un orefice impiegato in Zecca. Il padre, con un po’ d’orgoglio nazionalistico, tenne a precisare che il neonato era “todesco e bavaro”. Rimasto orfano di madre, Alberto seguì il padre, risposatosi, a Livorno dove il vecchio Johann lavorava nella costruzione del porto e dove morì di malaria il 17 agosto 1644. allora il giovane Alberto tornò a Roma, impratichito nell’arte di incidere medaglie e dove sposò Marta Agucchi, sorellastra della matrigna. Alberto fu chiamato a lavorare anche alla Zecca di Massa, dove incise conii monetali e, forse, medaglistici. Rientrato a Roma, Alberto fu impiegato nella Zecca papale incidendo alcune matrici per monete di Alessandro VII, ed entrando nel circolo della regina Cristina, il cui ingresso a Roma aveva celebrato con una medaglia nel 1655. Proprio in quegli anni, si trasferì con tutta la famiglia in una casa in affitto in Via dei Coronari, che ben presto diventerà un’officina d’incisione e vero e proprio stabilimento di coniazione. Seguitando ad incidere conii per medaglie private che trovavano un ottimo mercato, Alberto Hamerani spirò il 21 giugno 1677, proprio mentre il figlio Giovanni Martino consegnava alla Camera Apostolica la prima della trentennale serie delle medaglie annuali, che avrebbe fatto ad majorem Petri gloriam. 

HAMERANI GIOVANNI MARTINO

Figlio di Alberto, nacque a Roma il 10 febbraio 1646 e, adolescente, seguì il padre a lavorare nella zecca di Massa, dove si impratichì nel mestiere di incisore. Tornato a Roma nel 1670, lavorò all’officina “All’insegna della Lupa” in via dei Coronari di Cristoforo Marchionni, la cui figlia, Brigida, sposò nel 1676. Proprio in quell’anno, all’elezione di papa Innocenzo XI, fu nominato, con la mallevadoria del suocero, incisore camerale e “maestro de li ferri”, cioè incisore di coni monetali; si dimise da quest’ultima carica nel 1692, non accettando la riduzione di stipendio. Giovanni M. Hamerani fu ascritto alle maggiori Accademie dell’epoca e frequentò il cenacolo della regina Cristina; amico di esponenti di curia e di intellettuali, portò la sua officina a fama europea, fornendo di medaglie e di conii di monete numerosissime corti. Colpito da ictus cerebrale nella tarda primavera del 1702, fu aiutato nel proprio lavoro dai figli Ermenegildo e Beatrice. Giovanni M. Hamerani morì a Roma il 28 giugno 1704 e fu sepolto nel Cimitero Teutonico, accanto all’adorata figlia primogenita.

HAMERANI BEATRICE

Primogenita di Giovanni Martino, ebbe i natali a Roma il 14 settembre 1677. Poté godere di un’istruzione di prim’ordine, certamente non comune alle fanciulle dell’epoca. Abilissima nell’incisione di cristalli, seguì in questo campo le orme della zia Anna Cecilia Hamerani, ma non disdegnò neppure di incidere conii medaglistici. Per aiutare il padre malato, fu Beatrice ad incidere la medaglia annuale del 1702 per papa Clemente XI. Sposata ad un orefice, morì giovanissima il 25 febbraio 1704, per un tumore al cervello.

HAMERANI ERMENEGILDO

Primogenito maschio di Giovanni Martino Hamerani, nacque il 25 settembre 1683 e si avviò con ottimi risultati alla professione paterna. Anzi, quando il padre non poté più lavorare a causa della malattia, Ermenegildo fu nominato, nel 1704, incisore camerale per le medaglie e incisore principe per le monete, realizzando alcuni dei più bei esemplari numismatici del regno di papa Clemente XI. Uomo mondano, intimo amico dei maggiori intellettuali, non solo romani, del tempo, per l’intero anno 1730 lavorò alla zecca di Palermo. A poco a poco, Ermenegildo smise di dedicarsi all’attività lavorativa per dedicarsi alla “Società per fare medaglie” che aveva costituito insieme ai fratelli e che, anche grazie all’immensa collezione di conii di famiglia, diede agli Hamerani il monopolio della medaglistica italiana. Trascorse gli ultimi anni nella villa che si era fatto costruire alle pendici di Monte Mario, ma, gravemente malato, tornò nella casa-officina di via dei Coronari per morirvi il 29 novembre 1756. 

HAMERANI OTTONE

Era il settimo figlio di Giovanni Martino Hamerani e di Brigida Marchionni, nato a Roma il 5 novembre 1694; studiò dal nonno materno, e venne nominato nel 1730 “incisore soprastante” alla Zecca di Roma, giacché il fratello Ermenegildo si trovava, allora, a Palermo. Da qui in poi, entrambi i fratelli ebbero il monopolio dell’incisione di monete, medaglie Agnus Dei e quant’altro nella Zecca pontificia, ed incrementarono pure i loro affari privati. Nel 1734-37, i due fratelli Hamerani gestirono una Zecca provvisionale per conto dello Stato, situata nella loro casa-officina di Via dei Coronari; ma furono implicati in uno scandalo finanziario che portò alla sua chiusura. In seguito alla riforma della Zecca, passata alle dirette dipendenze della Camera Apostolica, Ottone Hamerani vide di molto decrescere le proprie entrate e si trovò in disagiate condizioni economiche, avendo sette figlie da maritare, per ciò provò a vendere la collezione di conii di famiglia. Ottone Emerano Hamerani morì il 21 marzo 1761, nella stessa casa che l’aveva visto nascere.

HAMERANI FERDINANDO

Primogenito maschio di Ottone Hamerani e di Teresa Velli, Ferdinando nacque a Roma il 20 maggio 1730. Collaborò con il padre sia nell’attività privata che in quella pubblica alla Zecca papale, e gli successe come incisore camerale nel marzo 1761. Angustiato da preoccupazioni economiche, tentò, fin dal 1764, di vendere l’avita collezione di famiglia dei conii papali e di devozione. Nel 1771 fu licenziato dalla Zecca ma vi fu riassunto cinque anni più tardi, con i medesimi incarichi precedenti, anche grazie all’interessamento di papa Pio VI. Costretto per motivi finanziari ad abbandonare la casa-officina di via dei Coronari, si trasferì in un appartamento in affitto nei pressi di Torre Argentina. Nella primavera del 1788, stanco e malato, si ritirò a vita privata, lasciando il proprio incarico al figlio Gioacchino. Ferdinando Hamerani morì a Roma il 25 novembre 1789.

HAMERANI Gio(v)acchino

Primogenito di Ferdinando e di Antonina Fuga, Gioacchino Hamerani nacque a Roma il 4 giugno 1761. Fece pratica nella famosa zecca paterna e fu assunto da quella statale con il compito di incidere i sigilli per le dogane. Di salute assai cagionevole, Gioacchino Hamerani fu nominato “vice” del padre nel 1788 per poi sostituirlo alla di lui morte nell’anno successivo, ma sempre con incarico ad interim. Soltanto il 18 aprile 1794, ottenne il titolo di “incisore camerale”, ribadito nel gennaio 1796, però dovette condividerlo con il Mercandetti. Minato dalla tisi, Gioacchino Hamerani si spense a Roma il 12 ottobre 1797, fra le braccia del fratello.

HAMERANI Giovanni

Il secondo genito di Ferdinando Hamerani vide la luce a Roma il 30 luglio 1763. Si dedicò alle Belle Arti e, giovanissimo, fu a Parma con il compito di arredare la locale Biblioteca Palatina. Tornato a Roma, aiutò il padre ed il fratello, senza tuttavia prendere parte attiva alla professione di incisore. Fu Giovanni Hamerani a condurre in porto la delicata trattativa che portò all’acquisizione definitiva, da parte della Zecca, dei conii della sua famiglia. Negli ultimissimi anni del ‘700, si dedicò materialmente alla fattura di conii monetali. Nell’anno 1800 venne chiamato da Francesco Mazio alla realizzazione delle medaglie di Pio VII, pur senza alcuna veste ufficiale. Accademico di S. Luca, ivi insegnò Arte della Medaglia quando Roma fu annessa all’Impero francese. Malato anch’egli di tisi, dopo la Restaurazione vendette quel poco che rimaneva del patrimonio di famiglia e risiedette in varie località dei Castelli Romani, sfruttandone la salubrità dell’aria. Tornato a Roma dopo il matrimonio dell’unica figlia, vi morì il 13 novembre 1846. fu sepolto in S.Carlo ai Catinari, accanto all’amato fratello Gioacchino.

HANSING Ernst Günter

Nato a Kiel nel 1929, già alla fine degli Anni ‘50 diventa famoso per i suoi ritratti, sia pittorici che scultorei, che riecheggiano il grande espressionismo tedesco fra le due guerre. L’Hansing, pure affermato grafico ed ideatore di nuove architetture, nelle sue opere, dai tratti secchi e spigolosi, tende continuamente all’ascesa del principio materiale per congiungersi con lo spirituale.

MANFRINI Enrico 

Medaglista italiano, nato a Lugo di Romagna il 27 marzo 1917. Studiò all’Accademia di Brera, di cui fu anche insegnante di scultura per molti anni. Legato da personale amicizia con Giovanni Montini, il Manfrini ha realizzato parecchie medaglie e monete per il Vaticano, pur non dimenticando la scultura monumentale. Egli si autodefinì uno scultore d’arte sacra, giacchè nell’arte sacra ci sono i più bei soggetti, sempre trattati però con stile del tutto personale e riconoscibile. Morì a Milano il 19 maggio 2004.

MANZU’ (Manzoni detto…) Giacomo

Tra i più significativi artisti italiani del XX secolo, nato a Bergamo il 22 dicembre 1908. Autodidatta, si trasferì a Milano negli Anni ’30, ed entrò in contatto con i più significativi movimenti culturali dell’epoca. Maestro del modellato nello spazio plastico, il Manzù si avviò piuttosto tardi all’arte medaglistica, ma ne raggiunse ben presto le vette. Incise pure conii monetali per alcuni Stati europei. E’ morto ad Ardea, dove, dal 1969, è presente la “Raccolta permante d’arte Amici di Manzù, il 17 gennaio 1991.

MASINI Anna Lisa

Nata a Roma nel 1966 e diplomatasi al liceo artistico, la Masini, allieva della Scuola dell’Arte della Medaglia, fu assunta in Zecca, dove tuttora è impiegata, nel 1991 e ha sempre dato dimostrazione della propria abilità sia nella modellazione, sia, soprattutto, nell’incisione vera e propria del conio, lavorandone direttamente il metallo.

MERCANDETTI Tommaso

Nato a Roma il 2 dicembre 1758, fin da giovanissimo diede mostra di grande abilità, tanto da aprire, dodicenne, una bottega di intagliatore. L’architetto Luigi Valadier gli affidò la realizzazione di alcuni coni monetali per la Zecca papale, fino a che il Mercandetti venne nominato incisore camerale insieme a Gioacchino Hamerani, il 16 gennaio 1796. Gravemente compromesso con la Prima Repubblica Romana, per la quale aveva lavorato, fu costretto all’esilio, ma ricevette commissioni, a compenso ridotto e con contratto privato, dalla zecca papale, finché, nel 1807, fu reintegrato nell’incarico. Però, dissidi con le autorità lo costrinsero di nuovo all’esilio. Tornò a Roma quando questa diventò la seconda città dell’Impero napoleonico e lavorò per i Francesi; cosa che gli valse, dopo il 1815, l’ostilità della curia vaticana. Dopo parecchie inchieste, il Mercandetti fu riabilitato nel 1818. Gravato da pesanti ristrettezze economiche morì a Roma l’ 11 maggio 1821. viene considerato unanimamente uno dei più grandi incisori artisti a cavallo dei due secoli, per quantità di materiale prodotto e per la sua qualità.

MERIGHI Giuseppe

Nato a Carpi nel 1930, il Merighi ha studiato a Bologna. Dapprima pittore ed eccellente ritrattista, si è poi dedicato alla scultura e specificatamente alla modellazione di medaglie, campo nel quale gode di meritata fama. Scultore elegante e raffinato, il Merighi è capace di cogliere gli atteggiamenti più spontanei ed espressivi dei soggetti che ritrae, utilizzando, talvolta, una prospettiva che sembra andare al di là della materia. Il Merighi è morto tragicamente a Carpi nel 2008.

MINGUZZI Luciano

Nato a Bologna nel 1911, si formò alla guida del padre, anch’egli scultore. Espose le sue prime opere poco più che ventenne, riscuotendo immediato successo di pubblico e plauso di critica e le sue opere sono esposte nei maggiori Musei del mondo. Pervaso da profondo senso religioso, il Minguzzi modellò anche la quinta porta del Duomo di Milano e quella della basilica vaticana. Nel corso della sua fulgida carriera artistica ha realizzato parecchi modelli per medaglie e per monete. Si è spento a Milano il 30 maggio 2004.

MISTRUZZI Aurelio 

Medaglista italiano nato a Villaorba di Udine il 7 febbraio 1880. benchè avesse preso il diploma di agrimensore, sentì un irrefrenabile impulso verso l’arte che lo portò a frequentare l’Accademia di Brera e quella di Venezia. Venuto a Roma, si diede alla scultura a tutto tondo in cui ebbe una certa fama. Benchè non fosse un professionista della medaglia, la Santa Sede lo scelse, tramite apposito concorso, per realizzare l’annuale del 1922 di Benedetto XV. Da quel momento in poi, fino alla morte, Aurelio Mistruzzi fece tutte le medaglie ufficiali del Vaticano e disegnò anche le prime monete del nuovo Stato. Legato da sincera e personale amicizia con Camillo Serafini e, soprattutto, con Pio XI ottenne da questi, il 25 giugno 1932, la nomina perpetua ad “incisore dei Sacri Palazzi Apostolici” , egli fu l’ultimo artista a ricoprire tale carica. Pur non tralasciando la scultura e l’oggettistica, il Mistruzzi rifulse soprattutto nella modellazione delle medaglie, non solo per il Vaticano. Dopo il secondo conflitto mondiale, la sua vena si appannò leggermente, anche in seguito a tristi vicende personali, ma rimase sempre ad ottimi livelli. Si racconta che l’artista ricevette il viatico sul letto di morte da Giovanni XXIII in persona. Era la vigilia di Natale del 1960.

OLIVA Otmar

Scultore slovacco nato ad Olomuc il 19 febbraio 1952. Si è formato sotto il grande Vladislav Vaculka. L’Oliva intende restituire all’arte il senso del sacro che aveva in passato e che sembra aver perso nella società consumistica. Perciò si è dedicato, pur accanto alla libera espressione, agli arredi liturgici, in senso lato, che forgia nel suo laboratorio a Velehrad.

PASINATI Giovanni e Giuseppe

Si tratta in realtà di due fratelli: Giovanni, nato a Vicenza il 21 Febbraio 1755, e Giuseppe nato il 2 Settembre 1756, che usavano firmare le loro opere con il solo cognome. Seguirono il padre a Roma, ove costui aveva aperto bottega di intagliatore; ottimi sigillari entrambi, di chiara fama, i fratelli Pasinati diventarono nel 1801 “Sigillari dei Sacri Palazzi”. Pur avendo inciso qualche medaglia per i privati, i Pasinati furono chiamati, a metà del 1814, a prestare la loro opera nella Zecca papale, realizzando conii monetali e di qualche medaglia, tra cui l’Annuale. Coinvolti in una brutta storia ed accusati di malversazione, furono posti sotto processo, dal quale però uscirono assolti. Tranne qualche opera secondaria, non lavorarono mai più per la Zecca di Roma. Giuseppe Pasinati morì nel 1829, qualche anno dopo il fratello. La “ditta di medaglie e sigilli” da loro fondata seguitò ad esistere fino agli Anni ’60 del XX secolo.

PASSAMONTI Salvatore

Incisore romano nato nell’ultimo quarto del XVIII secolo, di cui si hanno scarsissime notizie. Da giovane si diede all’intaglio dei cammei, ma con scarsi esiti economici. Fu allievo del Canova per la scultura e del Mercandetti per la numismatica. Assunto nel 1818 alla Zecca, ebbe la ventura di incidere medaglie per Pio VII, fra cui due annuali consecutive, i cui coni furono acquistati dallo Stato nel 1822. Dopo tale data non si hanno più notizie documentarie su di lui, sebbene c’è chi ha ipotizzato che sia morto nel 1851.

PERNAZZA Uliana

Diplomata al liceo artistico di Roma, città in cui è nata il 2 gennaio 1959, la Pernazza ha studiato nella prestigiosa Scuola dell’Arte della Medaglia presso la Zecca di Roma, della quale è diventata incisore nel 1984 realizzando una “medaglia – calendario”. Ha eseguito numerosi modelli per medaglie e conii per monete; attività a cui ora affianca l’insegnamento in quella stessa scuola che la vide allieva.

PETRASSI Silvia

Incisore bozzettista della Zecca di Roma dove è nata nel 1965. Molti i suoi lavori in campo numismatico; le sue opere sono pregne di elevate doti figurative e di uno spiccato gusto per l’armonia e l’equilibrio delle forme. E’ stata la prima donna a realizzare una medaglia annuale pontificia, quasi tre secoli dopo Beatrice Hamerani nel 1702.

ROCCHI EMANUELA

Nata a Roma nel 1974, è ottima designer dagli interessi più disparati: spazia dalla scultura all’arte orafa, dalla grafica alla pittura in un turbinio di interessi, verso i quali indirizza il suo versatile talento creativo.

ROMAGNOLI Giuseppe

Grandissimo incisore italiano, nato a Bologna il 14 dicembre 1872. Fin da 1897 espone nelle maggiori mostre italiane, finché nel 1909 viene chiamato a Roma a dirigere la nuova Scuola dell’Arte della Medaglia presso la Zecca, incarico che reggerà indefesso per quasi mezzo secolo. Incisore capo nella stessa zecca, il Romagnoli fece un numero infinito di conii per monete sia del regno d’Italia sia della Repubblica. Anche la sua attività in campo medaglistico, o per dovere d’ufficio o per diletto, è enorme. Il Romagnoli segnò veramente un’epoca in campo nummario; lo testimoniano i numerosissimi riconoscimenti ricevuti. E’ morto a Roma, ultranovantenne, nel 1966.

SCORZELLI Lello

Scultore dallo stile inconfondibile, eclettico e versatile,Lello Scorzelli nacque a Napoli il 1 novembre 1921 e vi fece i primi studi artistici. Fu deportato dai tedeschi durante la II Guerra Mondiale, e l’esperienza ne segnò per sempre l’anima. Amico personale di Paolo VI, fu da costui chiamato a modellare alcune medaglie per il Vaticano, dando saggio di potere passare con estrema disinvoltura dalla realizzazione di complesse scene di ampio respiro al piccolo ed angusto spazio del tondello, senza perdere un briciolo della propria valentia artistica. Lo Scorzelli morì a Roma, città in cui si era insediato stabilmente, il 20 settembre 1997.

SEVERINO Federico 

Scultore e pittore italiano, nato a Brescia nel 1953, si laurea in filosofia sulle orme paterne ed è autodidatta in campo artistico. Neanche ventenne espone ad una sua prima mostra personale. Dando ampio spazio alle tematiche del sacro, il Severino da segno di fervida capacità inventiva sorretta da una profonda cultura, capace di equilibrare le forti tensioni e contraddizioni della società. Saltuariamente ha realizzato anche modelli per medaglie.

SILVA (da) FERREIRA Antonio Manuel

 Scultore portoghese, nato a Lisbona nel 1956, che nel campo medaglistico ha trovato la sua completa realizzazione.Assecondando il proprio stile, di un realismo quasi fotografico alternato, e più spesso accoppiato ad una resa iconologica fantastica, il Ferreira (RG= il cognome completo è da Silva Ferreira Constao, ma egli preferisce farsi chiamare semplicemente Ferreira – cfr Voclab. Dos artsitos portugueso) ha iniziato la propria attività presso la Zecca della sua nazione, per poi ricevere committenze da svariati organismi sia pubblici sia privati di tutto il mondo.

TOFFETTI Mario

Nato a Mozzanica nel 1949, ha frequentato la prestigiosa Accademia Carrara di Bergamo, nel capoluogo. Scultore sia in marmo che in bronzo, ha ben presente il senso della sacralità: suo, ad esempio, il fonte battesimale nella Cappella Sistina in Vaticano. Occasionalmente si è dedicato alla medaglistica, ove ha portato il suo stile inconfondibile, che lo contraddistingue nel variegato panorama dell’arte italiana contemporanea.

TOMMASI Marcello 

Scultore, pittore e grafico, Marcello Tommasi è nato nel 1928 a Pietrasanta di Lucca. Allievo di Pietro Annigoni, si è dedicato progressivamente alla scultura dopo che la fama gli venne dalle innumerevoli illustrazioni grafiche per libri di grande prestigio. Dopo aver realizzato importanti sculture e monumenti, esposti soprattutto in Francia, il Tommasi ha affrontato anche la modellazione delle medaglie, portandovi il suo stile nervoso e dinamico, derivatogli certamente dagli insegnamenti dell’eclettico maestro, ma rivissuto in proprio. TOT Amerigo Eclettico e poliedrico artista ungherese, nato a (Fehérvar) Csurgo il 27 settembre 1909. dopo gli studi compiuti a Budapest, si trasferì prima in Germania, nel prestigioso gruppo del Bauhaus e, dopo l’avvento del Nazismo, venne a Roma. Partigiano della resistenza italiana, iniziò a lavorare a pieno ritmo soltanto dall’immediato dopoguerra, ottenendo numerosi riconoscimenti e committenze. Fu anche attore di cinema. Amico personale di Paolo VI, realizzò numerosi oggetti di alta oreficeria e scultura per questo Papa. Budapest gli ha intitolato un museo personale. Benché i suoi disegni tendano all’astrattismo, l’arte scultorea del Tot è improntata ad un realismo fantastico. E’ morto a Roma il 13 dicembre 1984.

VEROI Guido

Scultore e medaglista nato a Roma il 21 novembre 1926. Laureato in ingegneria, si rivolse all’arte sotto la guida di Pietro Giampaoli e di Publio Morbiducci. Dal 1958 realizza modelli per monete sia per la Repubblica Italiana che per la Città del Vaticano, ma la sua vera passione è la medaglistica dove giunge a vette insuperate sia nella medaglia fusa che in quella coniata. Ecezionale modellatore, il Veroi è impegnato anche nella realizzazione di sculture a tutto tondo, ma anche opere di pittura, di bassorilievo e di vetrate.

VISTOLI Raoul

Scultore nato a Fusignano il 22 dicembre 1915; di origini contadine, manifestò subito propensione per il disegno ed abile manualità, tanto da fare tutta una serie di ritratti in terracotta di suoi concittadini, che ottennero buon successo. Nel 1938 si trasferisce a Roma, ove stringe amicizia con Filippo Tommaso Marinetti, il fondatore del Futurismo ed ove ottiene una cattedra all’Accademia di Belle Arti. Buon ritrattista, nel senso rinascimentale del termine, ha saputo tuttavia adattare il proprio tratto sempre al soggetto raffigurato; autore di importanti monumenti pubblici, è anche un ottimo medaglista giacché nel tondello metallico porta il suo stile ora morbido ora incisivo. Il Vistoli morì a Roma nel giugno 1990.

VOIGHT Karl

Karl Voight nacque a Berlino il 6 ottobre 1801. artista bohemién fu pittore, scultore, grafico, intagliatore. Andò a Parigi e a Londra, dove collaborò con il Pistrucci. Convertitosi al Cattolicesimo, fu anche a Roma e qui incise alcuni conii monetali per Pio VIII. Poi, per circa un trentennio, lavorò nella Zecca di Monaco di Baviera. Ritornò a Roma, patria di sua moglie, nel 1859 e fu subito ascritto, data la sua fama, alle principali Accademie culturali della città, ottenendone persino la cittadinanza onoraria. Lavorò anche nella Zecca papale, realizzando medaglie e monete di Pio IX, ma sempre con contratti a tempo di tipo privatistico. Dopo il 1870, con la caduta del potere temporale dei Papi, decise di ritornare in patria. Morì a Trieste il 13 ottobre 1874, durante il viaggio che doveva riportarlo in Germania.

ZACCAGNINI Bonfi(g)lio

Nato a Chieti nel 1793, studiò in Seminario poi venne a Roma dove era stato trasferito il padre: Bonfiglio Zaccagnini si dimostrò ottimo incisore di lastre tipografiche, ma anche abilissimo nell’intaglio dei conii, tanto che fu assunto come collaboratore dai fratelli Cerbara. Lo Zaccagnini, sempre attento alle novità tecniche, acquisì anche una certa esperienza nella galvano plastica. Assunto in Zecca con contratto a termine e relegato in ruoli secondari, l’artista tuttavia fu scelto per incidere la medaglia annuale del 1853 di Pio IX. Uomo dal carattere poco aderente alla morale dell’epoca, fu sempre in contrasto con i superiori, un rapporto di conflittualità che certamente gli precluse una brillante carriera statale. Bonfiglio Zaccagnini morì a Roma il 28 ottobre 1867.

Monete porta messaggi

Ho sempre cercato di privilegiare le monete che potessero essere associate a valori simbolici e che andassero oltre il loro ambito economico e il loro essere mezzo di pagamento.

Molti autori hanno trattato nel tempo questa tematica e hanno scritto di cosa può diventare a seconda delle situazioni, degli avvenimenti, degli accadimenti una moneta; la moneta può essere, a seconda dei casi, valore, disvalore, simbolo, icona e altro ancora.

Per Jacques Le Goff nel Medioevo l’avarizia è peccato e quindi il denaro diventa maledetto e sospetto, per Lucia Travaini la moneta può diventare e assumere varie sembianze, può essere moneta memoria, moneta identità, la moneta, se depositata in tomba, può assurgere ai massimi significati e valori, quello specifico di tramite tra i pellegrini e il Santo venerato, tra terra e cielo.

Ma la moneta può essere anche icona, porta fortuna, può proteggere, può diventare oggetto di ostentazione per gioielli e cerimonie, può diventare simbolica nei riti di fondazione, può diventare reliquia da conservare.

Nella storia la moneta assume vari significati, basti pensare ai trenta denari di Giuda, al denaro come elemosina di San Francesco, ma tanti ancora possono essere i valori che la moneta assume nelle varie situazioni.

Studiando la monetazione milanese mi sono imbattuto in unaltro significato, non tanto divulgato secondo me, che la moneta aveva assunto in un particolare e travagliato momento storico della vita di Milano.

Mi riferisco allo storico periodo per Milano delle Cinque Giornate, del 1848, gli anni della rivolta, dei patrioti, ma anche gli anni della repressione austriaca, del Governo Provvisorio della Lombardia.

Accadimenti storici, dolorosi, eroici, ricchi di significati e valori. E come spesso accade, anche le monete partecipano, affiancano la storia, raccontano a loro volta la storia, sono nella storia.

Siamo all’incirca negli anni dal 1846 al 1849, quando la moneta in alcuni casi viene tagliata e diventa scatola, si può aprire e chiudere, può contenere scritte al suo interno, portare messaggi, dispacci, immagini, a volte anche con tecniche riconducibili alla dagherrotipia.

Adriano Savio in Cronaca Numismatica di ottobre 2008 specifica che di solito l’immagine riguarda il maresciallo Radetzky e che si dovrebbe trattare comunque di una evoluzione del dagherrotipo perché questo non è riproducibile.

Ma abbiamo non solo immagini di Radetzky, ma anche scritte incise all’interno del tipo “ Radetzky non lo vuole ˮ, in risposta al motto del Risorgimento “ Dio lo vuole ˮ.

Quindi messaggi dal tenore filoaustriaco, ma probabilmente utilizzati anche per la propaganda insurrezionale, dai patrioti con immagini degli stessi, con messaggi o dispacci e come segni di riconoscimento.

Una delle monete più utilizzate a questo scopo fu il 5 lire italiane del Governo Provvisorio di Lombardia del 1848, moneta d’argento con in leggenda al rovescio ITALIA LIBERA DIO LO VUOLE.

 

5 Lire Italiane 1848

 

5 lire italiane 1848 Governo Provvisorio di Lombardia chiuso e aperto con immagine del maresciallo Radetzky
5 lire italiane 1848 Governo Provvisorio di Lombardia chiuso e
aperto con immagine del maresciallo Radetzky

 

Nelle immagini sottostanti è riportato un altro 5 lire apribile a scatoletta in posizione chiusa e aperta con una precisa e funzionante chiusura a vite

5 lire apribile

 

Ma c’erano anche altre monete che risultano essere state utilizzate per questi fini, tipo il 10 centesimi, moneta in rame del 1849, moneta per il Regno Lombardo Veneto e che qui possiamo vedere chiusa e poi aperta in due, ma anche esemplari del 5 centesimi sempre in rame che vediamo sotto di fronte e di lato col taglio a scatola.

10 centesimi 1849, Milano
10 centesimi 1849, Milano
5 centesimi 1846, Milano
5 centesimi 1846, Milano

Quindi monete che diventano comunque mezzo di comunicazione, di propaganda, che furono probabilmente protagoniste sia nella repressione austriaca che nei moti insurrezionali dei patrioti.

Piccoli pezzi di storia che vanno oltre alla moneta vista come mezzo di pagamento, che ci trasmettono sogni, emozioni, tutto sommato è anche bello pensarlo e ritenere che sia così……

N.B. Tutte le monete qui illustrate sono di provenienza da collezione privata

 

 

BIBLIOGRAFIA

CRIPPA C., 1997, Le monete di Milano dalla dominazione austriaca alla chiusura della zecca dal 1706 al 1892, Vol. IV, Milano
FUCCI F., 1997, Radetzky a Milano, Milano
LE GOFF J., 2010, Lo sterco del diavolo. Il denaro nel Medioevo, Bari
SAVIO A., 2008, Scudi con sorpresa dalla Milano risorgimentale, in Cronaca Numismatica ottobre 2008
TRAVAINI L., 2007, Monete e storia nell’Italia medievale, Roma
TRAVAINI L., 2009, Valori e disvalori simbolici delle monete. I Trenta denari di Giuda, Roma
TRAVAINI L., 2013, Il lato buono delle monete. Devozioni, miracoli e insolite reliquie, Frascati ( RM )

Il tempio di Giove Ottimo Massimo

Premessa

L’articolo che segue ripeterà gran parte delle informazioni contenute nei post precedenti, che risulteranno in alcune parti, a questo punto, obsoleti, in quanto contenenti dati non più aggiornati.

Il Tempio di Giove Ottimo Massimo, o Giove Capitolino, o Capitolium si trovava nella Regio VIII (Forum Romanum), più precisamente sul Campidoglio; attualmente alcuni dei suoi resti possono essere visti e visitati al di sotto dei Musei Capitolini (ex Museo Nuovo di Palazzo Caffarelli), totalmente inglobati dalla struttura museale.

Fig. 1 - Mappa di Romav
Fig. 1 – Mappa di Roma 
(Fig.2 - Posizione del Tempio in una ricostruzione del "costruito" attuale)
Fig.2 – Posizione del Tempio in una ricostruzione del “costruito” attuale

STORIA DEGLI SCAVI

Già nel 1683, con la costruzione di Palazzo Caffarelli, furono rinvenute diverse strutture, fra le quali il cosiddetto Muro Romano. Nel 1875, in occasione della

Fig.3 - Planimetria del Tempio. In grigio scuro le aree di fondazione attualmente ritrovate
Fig.3 – Planimetria del Tempio. In grigio scuro le aree di fondazione attualmente ritrovate

costruzione della Sala Ottagona, nel Giardino del Palazzo dei Conservatori, si rinvennero altre corpose fondazioni in cappellaccio e in questo contesto, Rodolfo Lanciani fu in grado di correlarle con le altre rinvenute nella vicina Ambasciata di Prussia, indicandole come un unico grande complesso appartenente al Tempio. Nel 1919, furono eseguite indagini per definire il perimetro e chiarire le misure e furono scoperte nuove parti delle fondazioni.

Negli scavi del 1998-2000, si definì l’area di costruzione del Tempio; in questa occasione, si notò come le strutture moderne avessero del tutto asportato i livelli regi, repubblicani e imperiali del Tempio. Nel 2002, vennero alla luce i setti longitudinali delle fondazioni, chiarendo così, almeno a grandi linee, l’imponente grandezza del Tempio; si è scoperto anche che prima del Tempio, nel colle, erano presenti edifici abitativi e officine; sempre in questi recenti scavi vennero analizzate le fosse di fondazione, profonde circa 8 metri, all’interno delle quali non fu trovato moltissimo, se non pochi frammenti di ceramica e schegge di cappellaccio, ad indicazione del fatto che l’intera opera fu realizzata con un lavoro perfettamente coordinato e veloce.

 

IL MURO ROMANO

Il Muro Romano, è la struttura che ci consente attualmente di chiarire l’imponenza della struttura. Esso è la parte anteriore del setto longitudinale orientale delle fondazioni. Attualmente inglobato nella sua interezza all’interno dei Musei Capitolini, prende il nome dal limitrofo Giardino Romano, luogo nel quale vennero effettuati i lavori che consentirono di scoprire il muro. Archeologicamente non ha lasciato molte testimonianze, salvo un rinforzo in calcestruzzo effettuato in seguito alla prima distruzione del Tempio.

 

Fig.4 - Ricostruzione grafica dei resti del Muro Romano
Fig.4 – Ricostruzione grafica dei resti del Muro Romano
Fig.5 - Attuali resti del Tempio
Fig.5 – Attuali resti del Tempio

 

LA COSTRUZIONE DEL TEMPIO

Non essendo rimasta nessuna evidenza tangibile del Tempio, ogni ritrovamento è di notevole importanza. Durante gli scavi condotti tra il 1998 e il 2000 sono stati identificati alcuni impianti riconducibili all’antico cantiere che operò nello scasso per la costruzione delle fondamenta.

Al suo interno è stato possibile riconoscere zone di lavorazione metallurgica. Una volta messo in opera il cantiere, il Campidoglio, da zona abitativa, diventa zona sacra, contando anche il fatto che già da prima, sul colle, vi erano costruiti alcuni piccoli edifici sacri; il settore del Tempio, invece, era interessato da strutture abitative e di produzione.

 

STORIA DEL TEMPIO

Il Tempio di Giove subì nel corso dei secoli numerosi incendi e questo ha fatto sì che venisse più volte restaurato e ricostruito. La sua storia si può tranquillamente dividere in tre fasi: la fase Regia, quella Repubblicana e l’ultima, quella Imperiale.

ETA’ REGIA: Come ci ricorda Livio nella sua Ab Urbe Condita, il Tempio fu pensato da Tarquinio Prisco in seguito alla sua vittoria sui Gabii e al trattato con gli Etruschi. Alla sua morte, Servio Tullio non proseguì i lavori, cosa che invece fece Tarquinio il Superbo, iniziando a tutti gli effetti la costruzione. Ci dice Florio nelle sue Epitomae I,1:

[quote_box_center]Sed illud horrendum, quod molientibus aedem in fundamentis humanum repertum est caput, nec dubitavere cuncti monstrum pulcherrimum imperii sedem caputque terrarum promittere.

Il fatto più incredibile è che mentre innalzavano il tempio, nelle fondamenta fu trovata una testa umana, e nessuno dubitò che l’incredibile prodigio rappresentasse il presagio che sarebbe stata la sede dell’Impero e la capitale del mondo.[/quote_box_center]

 

A finire e inaugurare il Tempio, però, non fu l’ultimo dei Tarquini, ma Marco Orazio Pulvillo, uno dei consoli eletti nel primo anno della Repubblica. A ricordarcelo è sempre Livio, Ab Urbe Condita II, 7-8:

[quote_box_center][…] tenenti consuli foedum inter precationem deum nuntium incutiunt, mortuum eius filium esse, funestaque familia dedicare eum templum non posse. Non crediderit factum an tantum animo roboris fuerit, nec traditur certum nec interpretatio est facilis. Nihil aliud ad eum nuntium a proposito aversus quam ut cadaver efferri iuberet, tenens postem precationem peragit et dedicat templum

[…] mentre il console appoggiato allo stipite rivolgeva le sue preghiere agli dei, gli diedero la funesta notizia che il figlio era morto, egli non poteva consacrare il tempio mentre le avversità colpivano la sua famiglia. Che non abbia creduto al fatto o che abbia mostrato grande forza d’animo, non ci è stato tramandato per certo né tale interpretazione risulta semplice. Senza lasciarsi distogliere dalla notizia, a parte per dare ordine di sepoltura del cadavere, mantenendo la mano sullo stipite, completò le preghiere e consacrò il tempio [/quote_box_center]

Il Tempio fu così consacrato il 13 Settembre 509 a.C.

Ovviamente, prima della costruzione, furono interrogati le divinità dei santuari presenti sul Colle. Tutte acconsentirono, meno due, Juventas e Terminus e i loro altari rimasero: l’ara del primo si trovava in corrispondenza della cella di Minerva, mentre all’altare del secondo, il quale rimase all’esterno, fu praticata un’apertura nel tetto.

Florio, Epitoma de Tito Livio bellorum omnium annorum DCC, I, 7.7-8.

[quote_box_center]De manubiis captarum urbium templum erexit. Quod cum inauguraretur, cedentibus ceteris diis – mira rei dictu – restitere Iuventas et Terminus. Placuit vatibus contumacia numinum, si quidem firma omnia et aeterna pollicebantur. [/quote_box_center]

ETA’ REPUBBLICANA: il Tempio di Giove sopravvisse con sostanziale tranquillità sino all’83 a.C., quando un terribile incendio si abbatté su di esso, distruggendolo. Questo disastro fece sì che anche i Libri Sibillini bruciassero (Dionigi di Alicarnasso, Antichità Romane IV, 62, 6). Silla decise di ricostruirlo ma la in seguito alla sua morte, solo Quinto Lutazio Catulo, console nel 102 a.C. ebbe l’onore di finirlo e inaugurarlo.

Ci dice Plino nella Naturalis Historia VII, 138:

[quote_box_center][…] hoc tamen nempe felicitati suae defuisse confessus est quod Capitolium non dedicavisset

[…] in questo la sua vita fu breve e dissestata, in quanto non riuscì a completare il Tempio di Giove.[/quote_box_center]

ETA’ IMPERIALE: il Tempio mantenne la sua imponenza e bellezza sino al 69 d.C., quando le truppe di Vitellio, entrate a Roma, provocarono un grandioso incendio, che lo distrusse nuovamente. Vespasiano, una volta salito al potere si impegnò nella sua ricostruzione, finendolo nel 75 d.C. ma un nuovo incendio, scatenatosi nell’80 d.C., lo distrusse nuovamente, costringendo prima Tito e poi Domiziano ad una repentina ricostruzione, conclusasi nel 72 d.C., solamente due anni dopo l’incendio.

ETA’ POST IMPERIALE, MEDIEVALE E RINASCIMENTALE: in seguito alla caduta dell’Impero Romano il Tempio subirà molti furti e danneggiamenti, fino alla distruzione totale. In età Tardoantica, sia Stilicone che Genserico lo depredarono di molte delle sue decorazioni in metallo pregiato. Nel VI secolo, era però ancora annoverato da Cassiodoro come una delle meraviglie del Mondo.

Nel Medioevo l’intera area divenne “selvaggia”, di fatto, il nome datogli fu “Colle Caprino” e fu usata come cava di materiali, per i marmi preziosi e il cappellaccio delle fondazioni. Nell’XII sec. ancora si hanno segnalazioni riguardo al Tempio grazie a delle fonti letterarie. Nel XVI sec. inizia la costruzione di Palazzo Caffarelli, il quale progetto fu condizionato dalla presenza delle fondamenta del Tempio.

Nel 1919 lo Stato Italiano acquisisce la proprietà del terreno con l’immediato progetto di riportare alla luce il Tempio.

LE MISURE, LO STILE E LE MODIFICHE NEL TEMPO

Arriviamo adesso a parlare, finalmente, di ciò che doveva essere il Tempio, in vetta al Campidoglio.

Non avendo, appunto, nessuna indicazione archeologica, a parte la grande platea di fondazione, gli unici elementi a nostra disposizione per supporre cosa doveva essere questo edificio, sono le fonti letterarie, Dionigi di Alicarnasso e Vitruvio in primis e in seguito le fonti iconografiche, monete e sculture.

Come abbiamo già detto il Tempio svettava sul Campidoglio, in una posizione visibile da gran parte di Roma, cosa che lo rese famoso e lo consacrò fra gli edifici più belli del pianeta.

Fin dall’inizio, la difficoltà nel dare una “forma” precisa al Tempio, ha fatto scervellare e discutere moltissimi studiosi e si sono venute a creare due fila: quelli a sostegno di una riproduzione del Tempio con misure di 54×62, sostanzialmente quadrato, come Gjerstad e Cifani e quelli a sostegno del fatto che un Tempio così grosso non poteva esistere e dunque la prima fase del Tempio, in età regia, non doveva essere altro che un complesso di edifici più piccoli che si accostavano l’un l’altro, come Castagnoli, Giuliani e Stamper.

Nel 2009, Anna Mura Sommella, non convinta da questi due filoni, si interrogò sulla possibilità di aggiungere gli ultimi 12 metri di platea (mai considerati parte del Tempio) alle fondazioni, così da creare un Tempio stilisticamente “corretto”, aggiungendo che le tesi precedenti, per quanto realistiche, peccassero nell”evidenza delle fondazioni ad oggi scoperte, non rendendo possibile far combaciare le mura con i filoni di fondazione.

Sostanzialmente d’accordo con la tesi di Mura Sommella procederò col descrivervi il Tempio secondo la sua versione, che comunque, non risulta essere priva di dubbi e incongruenze alla luce dei fatti, dovuti ovviamente, alla mancanza di dati.

Dionigi di Alicarnasso, Antichità Romane, IV, 61, 4

[quote_box_center][…] essendo stato ricostruito dopo l’incendio dai nostri padri sulle stesse fondamenta, differisce dall’antico solo per la bellezza del materiale utilizzato[/quote_box_center]

Dunque, secondo Dionigi, ma anche secondo altri autori, il Tempio, dopo il primo incendio, fu ricostruito esattamente come quello di età regia. C’è da considerare che Dionigi, al momento della sua descrizione, ricordava un monumento di almeno 500 anni prima.

Egli ci lascia una descrizione piuttosto puntuale, dicendoci che:

[quote_box_center]il Tempio aveva un perimetro di 800 piedi (29,6 cm = 1 piede), i lati lunghi misuravano 200 piedi, mentre quelli corti, circa 15 piedi in meno dei primi. Il Tempio aveva un pronao di tre file di colonne antistanti l’entrata e solo una fila per ogni lato. Il Tempio consisteva in un complesso di tre celle parallele separate: al centro alloggiava la statua di Giove, a sinistra Giunone e a destra Minerva, il tutto, sotto un frontone e un tetto.[/quote_box_center]

Cade subito all’occhio, come lo stesso Dionigi abbia sbagliato nel redarre le misure, visto che misurando i lati lunghi (200 piedi) e i lati corti (185 piedi) si avrebbe un totale di 770 piedi.

Mura Sommella ci ricorda come Dionigi, al tempo della descrizione non misurasse le fondamenta, ma bensì l’alzato, che come si conviene, doveva essere di gran lunga inferiore alla misura di quest’ultime.

Seguendo questi ragionamenti, coadiuvata dall’architetto Foglia, Mura Sommella ha fissato le misure del perimetro a 230×170 piedi, tenendo conto delle riduzioni dimensionali fra le fondazioni e l’alzato di altri templi e anche del fatto che la platea di fondazione sia larga solamente 182 piedi, addirittura inferiore alla misura che ci da inizialmente Dionigi.

Avremmo così 3 perimetri, il primo, che misura l’intera platea di 866 piedi, il secondo, relativo alla base del podio di 800 piedi e il terzo, relativo all’altezza del piano di spiccato delle colonne di 770 piedi.

Fig. 7 - proposta di planimetria voluta da Mura Sommella;
Fig. 7 – proposta di planimetria voluta da Mura Sommella
Fig. 6 - Vecchia planimetria
Fig. 6 – Vecchia planimetria

Ciò che si nota nella ricostruzione di Mura Sommella, diversamente da come fu rappresentato in precedenza, è l’andamento delle colonne.

Mentre attualmente il Tempio è considerato periptero, in precedenza, fu dichiarato come periptero sine postico, ossia senza il colonnato nella parte posteriore.

L’Autrice, spiega questo riferendosi sempre all’aggiunta degli ultimi 12 metri di platea, in precedenza non considerati facenti parte del Tempio.

Ci spiega come Dionigi di Alicarnasso, quale greco puro, avrebbe dovuto stupirsi di fronte ad un tempio che esulava dai canoni greci, senza il colonnato posteriore, si pensa, quindi, che il dato sia sottinteso.

A rafforzare questa tesi, leggendo con più precisione Dionigi, notiamo che egli nel riferirsi al colonnato si esprime con la parolaπεριλαμβάνω, che significa “circondare”. Vitruvio, inoltre, nel suo De Architectura, non lo include nella tipologia di tempio periptero sine postico.

Altro aspetto che si nota è la scalinata che circonda completamente il Tempio. Oltre alla solita spiegazione della platea considerata interamente, sempre Dionigi, ci aiuta con un termine, quando descrive il podio: “δ’ επί κρηπίδος νψηλής”, dove la parola “κρηπίς”, nell’architettura templare greca, indica il sistema di gradini che ricopre l’intero Tempio – Dion. Hal. IV, 61, 3.

Per quanto riguarda la struttura, Vitruvio, nel De Architectura III, 3,5, ci dice:

Origine della Moneta

Premessa 

Parlare di origine della monetazione implica fare una distinzione tra il termine denaro (ovvero quello che in inglese si definisce con la parola money) e il termine moneta (quello che gli inglesi chiamano coin ). Il primo, ovvero uno strumento che potesse servire come mezzo di pagamento oppure come riserva di valore, nasce prima della moneta che ne rappresenterà la naturale evoluzione.

Prima di passare ad una breve trattazione sull’origine della moneta, nell’aspetto quale noi la conosciamo, vale la pena studiare il contesto culturale che precedette la sua introduzione, indagando gli elementi che portarono all’introduzione e all’utilizzo del denaro, strumento economico fondamentale dal quale la moneta trasse origine divenendone perfetto complemento.

 

Circolazione Metallica nel III millennio aC

Il denaro, nella sua accezione di strumento, riserva di valore e misurazione di valore, è comparso molto prima della moneta e quantunque un’eccessiva precisione non sia possibile in un contesto storico molto antico, possiamo individuare delle aree e dei periodi in cui tale strumento abbia cominciato ad affermarsi.

Se non si puó affermare con assoluta certezza che la storia finanziaria sia nata nel Vicino Oriente, è certo che Mesopotamia e Siria ne rappresentano (forse con la sola esclusione della Cina) il primo e più conosciuto esempio.

evt101113011600457La fine del IV millennio aC vede la formazione di cittá-stato indipendenti caratterizzate da istituzioni pubbliche fortemente accentrate (tempio e palazzo) che si dotano di strumenti contabili espressi in modo progressivamente più elaborato, attraverso l’introduzione e l’uso della scrittura (da alcuni considerata come

l’evoluzione primaria indotta dalla necessità di rappresentare graficamente dei concetti contabili).

In epoca cosí remota le necessità commerciali creano lo sviluppo della contabilità e addirittura dei primi bilanci, soprattutto per quanto atteneva il controllo delle entrate e delle uscite, della casa reale.

Il terzo millennio vede l’impero di Ur (Mesopotamia) procedere alla importantissima standardizzazione di pesi e misure che sarà funzionale alla dimensione raggiunta dal commercio e alle esigenze di un sistema centralizzato di tassazione.

Soprattutto si assiste alla selezione e all’adozione di alcuni beni definiti (orzo, rame, argento, etc.) che vengono utilizzati, nelle pratiche di contabilità amministrativa come standard con funzione di misura di valore.

È proprio l’introduzione di questo uso che testimonia l’individuazione di strumenti finanziari ante litteram che, pur non assolvendo alle funzioni prerogative della moneta, ne prefigurano i prodromi che porteranno alla sua concezione e introduzione.

Tra le funzioni di questi strumenti troviamo l’uso di metallo prezioso, argento nella fattispecie sotto forma di anelli o lingotti, come forma di pagamento. Vale la pena far rilevare come, a differenza di quanto succedeva per le monete, questi lingotti venivano continuamente ripesati ad ogni transazione e che proprio la determinazione ponderale era l’elemento principale che ne implicava l’obbligo di accettazione come mezzo di pagamento.

E qui troviamo uno degli elementi distintivi che separano la moneta, che, di peso predeterminato e recante il sigillo dell’autorità emittente, per queste caratteristiche gode della circolazione fiduciaria, ovvero, a differenza dei lingotti di metallo nobile usati per i pagamenti e gli scambi, non deve essere ripesata ad ogni transazione e la sua accettazione è obbligatoria nei pagamenti con potere liberatorio.

In pratica è il denaro che evolve nella figura di moneta che rappresenta un perfezionamento dello strumento finanziario.

 

Testimonianze contabili

Dalla Mesopotamia ci sono pervenute numerosi testi di contratti di compravendita (di case, di terreni, etc.) in cui il prezzo dei beni oggetto della transazione viene espresso in sicli , in misure di orzo e in metalli (principalmente argento e rame). È l’impero di Ur a imporre l’adozione di valori standard :

[quote_box_center]

1 talento (26.7Kg d’argento puro) = 60 mine (gr.500 ca.)

1 mina = 60 sicli (8.3 gr. Ca.)

[/quote_box_center]

Ma è singolare che fin dall’inizio della documentazione scritta (tavolette con caratteri cuneiformi risalenti al 3200 aC) risulti presente nella contabilitá una limitata serie di beni o prodotti (orzo, rame, argento, etc.) che vengono utilizzati come standard con funzione equivalente di valore.

Abbiamo evidenza che quantunque l’argento, ad esempio, fosse uno dei valori standard più ricorrenti nei testi di contratto che ci sono pervenuti, tuttavia molto raramente una transazione si concludeva con il passaggio effettivo del metallo su cui era parametrato il valore del bene scambiato.

Un’altra interessante osservazione riguarda l’uso dell’argento (molto più raramente dell’oro) quale standard di riferimento per i prezzi che i vari contratti, o i codici, elencano, il che fa supporre un valore in un certo qual modo costante del metallo.

OrzoMa l’argento doveva essere importato da Sumeri e Babilonesi, non essendocene in abbondanza nelle terre autoctone, in questo modo il suo potere d’acquisto restava elevato e relativamente stabile. All’interno dello Stato però vi era la necessità di adottare un sistema di pagamento in naturalia che poteva essere sostituito, per ragioni di praticità a quello basato sull’argento. Il bene prescelto per questo scopo fu l’orzo e il rapporto, fissato una volta per tutte, fu di 300 litri d’orzo per 1 siclo (questo rapporto ricorre sia nei codici di Hammurabi che nei contratti e nei testi economici sumerici e paleo-babilonesi). Dai documenti giuridici e da quelli contabili a noi pervenuti risulta sufficiente evidenza che nel periodo sumerico e paleo-babilonese, argento e orzo venivano utilizzati come :

a) unità di valore (nella quale erano calcolati prezzi, noleggi, crediti)

b) mezzo di scambio (dall’argento al rame, all’orzo, etc.)

c) modo di pagamento (per acquisti, ma anche per investimenti) e che tra i due esistesse un rapporto fisso di scambio in modo che entrambi i beni fossero parte di un unico sistema economico- monetario.

L’argento, in particolare, costituiva l’inizio e la fine di tutto il ciclo commerciale e svolgeva gran parte delle funzione della moneta.

E l’oro ? Sorprendentemente (ma non troppo) l’oro ricorre soprattutto come materia prima negli oggetti dedicati alle divinità; non è invece menzionato nei contratti, fatta eccezione per alcuni contratti di prestito e per le divisioni ereditarie. L’oro esibisce inoltre una forte fluttuazione della sua parità rispetto all’argento, passando da un rapporto di 1 a 10 fino addirittura ad 1 a 3 (regno di Hammurabi), tale fenomeno, piuttosto raro nella storia, fu probabilmente determinato da un maggiore afflusso del metallo giallo di quasi certa provenienza egiziana, terminato il quale il rapporto con l’argento si ristabilí sui livelli storici cui, in antichità si è normalmente attestato (tra 1:10 e 1:12).

 

Il I millennio aC

Successivamente allo sviluppo dei grandi sistemi di potere medio- orientali, ovvero l’impero Assiro prima, il regno caldeo e neo- babilonese poi e infine il dominio Achemenide, si assiste alla sostituzione del dominio delle cittá-stato (come era avvenuto in epoca sumerica e babilonese) a sistemi più complessi ove coesistevano genti, culture e comunitá tra loro anche assai diverse che si trovavano ad essere dominate da un singolo, spesso assai lontano, sovrano. Anche in questo, più evoluto e complesso, sistema di divisione del territorio, l’argento rappresenta lo strumento monetario per eccellenza. Il sistema metrologico di base per la pesatura dei metalli è sempre quello tradizionale, a base sessagesimale, in cui 1 talento equivale a 60 mine e ciascuna mina a 60 sicli.

In questi secoli si assiste ad un processo di razionalizzazione progressiva, nei modi di produzione come nella formazione dei prezzi e nello sviluppo dei mercati, oltre ad una crescita dell’amministrazione statale e alla conseguente evoluzione dei rapporti tra lo Stato e i suoi sudditi.

È possibile che l’intensificazione delle transazioni, lo sviluppo del sistema tributario e la crescita dell’apparato statale abbiano determinato la conseguente necessitá di un riferimento più standard,

razionale e ordinato rispetto a quello garantito dalla circolazione puramente metallica.

E che, in ultima analisi, questo abbia portato all’introduzione della moneta.

 

Le ragioni della nascita della moneta

Ma quali sono le ragioni che portarono una polis ad introdurre una propria monetazione ?

aristoteleAristotele ci presenta due teorie sulla nascita della moneta, una commerciale ed una socio-politica. La prima (Politica I,9 1257a-b) considera la moneta come uno strumento imposto dalle necessitá dello sviluppo del commercio.

Nell’Etica Nicomachea (V,5,6-7, 1132b) si vede nella moneta, invece, uno strumento di giustizia e un correttivo degli equilibri all’interno di una comunitá sociale. La moneta fornisce istanza di mediazione poiché con essa tutto è misurabile. Non a caso la parola greca che definisce la moneta è nomisma che deriva da nomos che significa legge, poiché è dalle leggi che la moneta viene resa valida, in quanto la moneta esiste non per sua natura ma perché discende da un provvedimento dello Stato.

Un’obiezione alla teoria dell’introduzione della moneta per ragioni di scambio e di mercato deriva dalla constatazione che quasi tutte le serie monetali introdotte al principio della monetazione sono cominciate con denominazioni di grande valore, non utilizzabili nelle spese giornaliere (comprese le piccole e piccolissime frazioni di statere in elettro giá presenti sul finire del VII secolo).

Parrebbe che le monete introdotte fossero destinate alla tesaurizzazione o utilizzate per i grandi pagamenti statali (opere edilizie, costruzione di templi, etc.), o ancora per le spese di guerra.

Il proliferare delle zecche, ovvero delle cittá che, soprattutto nella Grecia settentrionale, vollero subito emettere moneta, puó essere visto come il legittimo desiderio di autodeterminazione di una poleis l’orgoglio ad essere riconosciuta e a farsi riconoscere attraverso un simbolo tangibile e circolante come la moneta (vedi esempio

dell’emissione del primo tetradramma di Naxos dopo la liberazione della cittá dalla dominazione siracusana).

 

Altre teorie sulla nascita della moneta

Esistono, naturalmente altre teorie che tentano di spiegare il fenomeno moneta. Secondo una vecchia, e in parte superata, teoria di B. Laum (Heiliges Geld. Ein historische Untersuchung über den sakralen Ursprung des Geldes, Tübingen 1924) la moneta nasce nel momento in cui si avverte la necessità di sostituire alle offerte umane o animali un oggetto inanimato, in primo luogo gli strumenti per il sacrificio o per l’arrostimento delle carni (spiedi: un bue = tot spiedi; invece di offrire la carne del bue si offre la quantità di strumenti necessari al suo arrostimento). Laum vedeva peró solo l’aspetto religioso della nascita della moneta, trascurando l’aspetto sociale ed economico. Di questo avviso anche il noto studioso Panvini Rosati (Lineamenti di preistoria monetaria greca, in La moneta greca e romana, a cura di F. PANVINI ROSATI, Roma 2000) secondo il quale la moneta nasce come sostituto degli oggetti (doni) che servivano per creare obbligazioni fra gli uomini e fra gli uomini e gli dei.

 

La nascita della moneta : primato greco o lidio ?

Anche i cronisti antichi non sono d’accordo in merito a chi spettasse il primato di aver introdotto per primo la moneta.

Giulio Polluce, grammatico greco del II secolo dC, nel suo Onomasticon menziona i vari pretendenti :

Fidone di Argo, Demodice moglie del re frigio Mida, gli ateniesi Erittonio e Lico, oppure (secondo Senofane) i Lidi.

Emerge subito una contrapposizione evidente tra un’origine occidentale greca ed una orientale sulle coste dell’Asia Minore.

Non mancavano, tra gli studiosi, i fautori dell’uno o dell’altro partito. Chi considerava la moneta come un prodotto della regolamentazione legislativo-amministrativa propendeva per un’origine greca, chi invece la intendeva come innovazione tecnica ed evoluzione di una precedente circolazione metallica propugnava un’origine orientale e in particolare lidia, regione che deteneva il controllo dei più importanti distretti minerari dell’Asia Minore.

 

 Il ritrovamento dell’Artemision

Il ritrovamento del tempio dell’Artemision di Efeso ha successivamente consentito di individuare in Asia Minore i primi centri di produzione della moneta.

Gli scavi inglesi del 1904-5 hanno infatti recuperato, in livelli anteriori all’etá di Creso (560-546 aC) 93 esemplari in elettro che testimoniano in modo evidente (attraverso modificazioni tipologiche e tecniche) del passaggio tra la circolazione metallica a quella monetaria, ovvero dall’uso di gocce di metallo di peso e forma definiti e dalla superficie liscia o striata e punzonata, all’uso di monete con rappresentazione figurativa.

Le prime fasi del passaggio dal metallo pesato al metallo monetato sono attestate dai 19 esemplari rinvenuti in gruzzolo all’interno di una brocca di tradizione subgeometrica. Alla base centrale del tempio furono rinvenuti, oltre a globetti lisci, striati e punzonati, una molteplicitá di tipi, dei quali solo poche serie sono con sicurezza attribuibili ad Efeso :

– i pezzi con la testa di leone

– quelli con le legenda Valvel (riferiti alla Lidia)

– un esemplare con la testa di foca

di ancora incerta attribuzione risulta la famosa serie con legenda Phaneos(/Phanos emi sema) di cui si discute se debba essere attribuita ad Efeso o Alicarnasso.

Sono purtroppo ancora insufficienti gli elementi per assegnare con certezza una serie, o l’altra, ad una determinata cittá.

A complicare le cose è stato inoltre riscontrato un discreto numero di legami di conio per tipologie anche diverse che hanno consentito di riferire ad un unico centro di emissione monete caratterizzate da tipi diversi.

Tali conclusioni sembrano essere suffragate anche dai risultati delle analisi metallografiche.

Barclay Head (The Coins in : D.G. Hogarth “Excavations at Ephesus. The Archaic Artemision” Londra 1908), il primo a descrivere il rinvenimento dell’Artemision, aveva considerato il ripostiglio come un’unica offerta votiva composta di vecchie e nuove monete che

circolavano in Efeso ai tempi di Alyattes (617 – 560 aC), dalle “gocce” monetiformi risalenti all’etá di Gige (685-657 aC) agli esemplari contemporanei di Alyattes. Ma in seguito ad una revisione dei contesti archeologici del ritrovamento, la datazione più antica venne spostata in avanti al 640-630aC. Le più recenti indagini hanno concluso che i pezzi rinvenuti all’Artemision non facessero parte né di un’unica offerta votiva, né di un deposito di fondazione, ma che le monete erano state interrate ai tempi dell’edificazione del tempio dell’etá di Creso (560-546aC).

 

Ripostiglio di Asyut

Un altro ripostiglio, quello di Asyut (M. Price, N. Waggoner, Archaic Greek Coinage. The Asyut Hoard, Londra 1975), fondamentale per la cronologia delle prime emissioni, ha mostrato che, con ragionevole probabilitá, il passaggio dal metallo pesato alla moneta sia avvenuto nell’ultimo quarto del VII secolo o nei primi decenni del regno di Alyattes (617-560 aC). Concorderebbe altresí con tale datazione il tipo di brocca nella quale è stato rinvenuto il gruzzolo dell’Artemision. Un fenomeno sembra provato con ragionevole certezza: ovvero che la transizione dalle “gocce” di metallo alle prime monete, contrassegnate da un’immagine figurata, sia stato assai rapido. Tuttora incerta peró permane, ai nostri occhi, questa fase creativa che deve essere stata caratterizzata dallo sviluppo di esperienze molteplici non ancora comprese a fondo nella dinamica degli eventi.

 

 Diffusione della moneta

Ammettendo (con riserva) che la moneta sia nata in Oriente, dalle coste dell’Asia Minore l’uso del metallo monetato si estende progressivamente verso l’Occidente, attraverso le isole egee, arrivando in Grecia durante il secondo quarto del VI secolo. Il metallo usato peró non è più elettro bensí argento. Il taglio dei pezzi si fa sulla base del piede eginetico (6.26gr.) e di quello euboico (8.72gr.). I primi centri ad emettere moneta sono : Egina, Corinto e Atene.

Le missioni cicladiche : Sifnos, Paros, Delos, Melos, Naxos, Ceos. Successivamente : Calcide ed Eretria (Eubea), Tebe (Beozia).

A partire dal 540aC la pratica della coniazione si estende alle colonie della magna Grecia : Metaponto, Sibari, Crotone, Paulonia, , Poseidonia, Velia. Successivamente ancora batteranno moneta Lao, Taranto e Reggio.

In Sicilia sará Naxos a battere leprime monete, seguita da Imera, Zancle, Selinunte, Agrigento, Gela e infine, nel 520 Siracusa.

La pratica della coniazione si estende poi progressivamente a tutti i principali centri mediterranei dell’epoca (Cirene, Marsiglia).

Conclusioni

Molto resta da indagare e molte pagine ancora da scrivere in merito alla comparsa delle prime monete, nella forma in cui le conosciamo. Nuovi ritrovamenti, in assenza di fonti letterarie o documenti originali diretti, potranno gettare maggiore luce sulle dinamiche che hanno portato all’adozione di questo di un’ invenzione che ha rivoluzionato l’organizzazione sociale ed economica delle nostre società.

Di seguito vengono riportati alcuni testi e articoli utili per approfondire l’argomento ed una selezione di foto di alcuni esemplari arcaici per illustrare l’evoluzione tipologica e artistica delle prime monete conosciute.

 

BIBLIOGRAFIA

Del Mar, Alexander. A HISTORY OF MONEY IN ANCIENT COUNTRIES, FROM THE EARLIEST TIMES TO THE PRESENT (1968).

Del Mar, Alexander. HISTORY OF MONETARY SYSTEMS; A HISTORY OF ACTUAL EXPERIMENTS IN MONEY MADE BY VARIOUS STATES OF THE ANCIENT AND MODERN WORLD., 1836-1926 (1969).

Del Mar, Alexander. MONEY AND CIVILIZATION: OR, A HISTORY OF THE MONETARY LAWS AND SYSTEMS OF VARIOUS STATES SINCE THE DARK AGES, AND THEIR INFLUENCE UPON CIVILIZATION (1969).

Ederer, Rupert J. THE EVOLUTION OF MONEY (1964).

Einzig, Paul. PRIMITIVE MONEY IN ITS ETHNOLOGICAL, HISTORICAL AND ECONOMIC ASPECTS (1949).

Galbraith, John Kenneth. MONEY, WHENCE IT CAME, WHERE IT WENT (1975).

Grierson, Philip. THE ORIGINS OF MONEY (1977).

Lubbock, John, Sir. A SHORT HISTORY OF COINS AND CURRENCY (1902).

Melitz, Jacques. PRIMITIVE AND MODERN MONEY: AN INTERDISCIPLINARY APPROACH (1974).

Quiggin, A. Hingston. A SURVEY OF PRIMITIVE MONEY; THE BEGINNING OF CURRENCY (1949).

Quiggin, A. Hingston. THE STORY OF MONEY (1952).

 

Fotografie non in scala

FOTOGRAFIE

Ionia – zecca incerta prima metà VII sec. aC EL Trite
Ionia – zecca incerta prima metà VII sec. aC EL Trite
Ionia – zecca incerta 650 aC EL Trite
Ionia – zecca incerta 650 aC EL Trite
 Atene – Wappenmünzen – AG obolo 550 aC
Atene – Wappenmünzen – AG obolo 550 aC
Tenedos – AG di dracma 550 – 470 aC
Tenedos – AG di dracma 550 – 470 aC
Atene – Wappenmünzen – AG didramma 520 aC
Atene – Wappenmünzen – AG didramma 520 aC
Thraco – Macedonian – zecca incerta – 500-480 aC EL Statere
Thraco – Macedonian – zecca incerta – 500-480 aC EL Statere
 Thracia – zecca incerta – AG stater 530-480 aC
Thracia – zecca incerta – AG stater 530-480 aC
Asia Minore – zecca incerta – 500 – 480 aC
Asia Minore – zecca incerta – 500 – 480 aC EL Statere
Asia Minore – zecca incerta – 500-480 aC
Asia Minore – zecca incerta – 500-480 aC EL Statere
 Ionia – Phokaia - 492 aC EL Hekte
Ionia – Phokaia – 492 aC EL Hekte
 Attica – Isola di Aegina – AG statere 550-530 aC
Attica – Isola di Aegina – AG statere 550-530 aC
 Ionia – Phokaia – EL stater 625 aC
Ionia – Phokaia – EL stater 625 aC
Ionia – zecca incerta 625 – 600 aC EL Trite
Ionia – zecca incerta 625 – 600 aC EL Trite
Ionia – Ephesos – Phanes EL 625-600aC
Ionia – Ephesos – Phanes EL 625-600aC
Ionia – zecca incerta – EL statere 650-600 aC
Ionia – zecca incerta – EL statere 650-600 aC
Ionia – Phokaia – EL Hekte ca. 525 aC
Ionia – Phokaia – EL Hekte ca. 525 aC

Schermata 2013-11-26 alle 18.44.05

Esempi di gocce arcaiche di elettro : la fase monetale immediatamente successiva alle gocce di elettro lisce Ionia – zecca incerta - 650 – 600 aC EL Hekte e Hemihekte
Esempi di gocce arcaiche di elettro : la fase monetale immediatamente successiva alle gocce di elettro lisce
Ionia – zecca incerta – 650 – 600 aC EL Hekte e Hemihekte
Lydia – Croisos – AU stater 560-546 aC
Lydia – Croisos – AU stater 560-546 aC
 Ionia – Miletos – EL stater 560-545aC
Ionia – Miletos – EL stater 560-545aC
Ionia – zecca incerta – 650 – 600 aC EL statere (Samian standard)
Ionia – zecca incerta – 650 – 600 aC EL statere (Samian standard)
Ionia - Phokaia EL Stater 620 – 600aC
Ionia – Phokaia EL Stater 620 – 600aC