Con gli ultimi Dogi lo zecchino non subisce più grosse modifiche, ma si nota un generalizzato peggioramento nello stile delle figure impresse che, salvo rare eccezioni, si fa approssimativo e alquanto stilizzato.
Le lettere che compongono le legende, invece, si fanno più moderne e leggibili e tra loro, spesso, il punto che separa i nomi o determina le abbreviazioni, cede il posto ad una stelletta o ad una rosetta.
Alvise Mocenigo II (1700 – 1709)
Giovanni Corner II (1709 – 1722)
Alvise Mocenigo III (1723 – 1732)
Carlo Ruzzini (1732 – 1735)
Alvise Pisani (1735 – 1741)
Pietro Grimani (1741 – 1752)
Francesco Loredan ( 1752 – 1762)
Marco Foscarini (1762 – 1763)
Alvise Mocenigo IV (1763 – 1778)
Paolo Renier (1779 – 1789)
Ludovico Manin (1789 – 1797)
Con Giovanni Corner II (1709 – 1722), ci sono due novità (Fig. 26): la prima riguarda la mano destra di San Marco; non impugna più l’asta per consegnarla al Doge, ma l’ha in atto benedicente. Il Doge resterà il solo ad impugnare l’asta crociata. Salvo qualche ritorno al passato avvenuto con il Doge successivo, d’ora in poi la postura del Santo sarà sempre questa. La seconda novità è che dalla nuca del Doge, quasi uscisse dal “corno”, c’è un nuovo elemento, sembra un ricciolo più o meno pronunciato e lungo. Qual è il suo significato?
Sarà quest’ultimo elemento a caratterizzare tutte le rappresentazioni dei Dogi sugli zecchini che seguiranno; parrebbe una delle due “infule”, quei due nastri di tela che dalla parte posteriore delle mitrie vescovili scendono fin sulle spalle, ma queste non erano accessori del “corno”, né mai si sono viste nei tantissimi quadri nei quali sono rappresentanti i Dogi.
Sappiamo per certo che Giovanni Corner II fu il primo Doge a cedere alla moda ed a portare la parrucca (( Parrucca: la parrucca maschile arrivò a Venezia nel 1665. La data è storica e riferita da tutti i cronisti e la prima persona a portarcela dalla Francia fu il patrizio Vinciguerra di Collalto. Non fu subito bene accetta dal governo veneziano, anzi fece di tutto per vietarla, varando la solita legge rigorosa con relativa ammenda salatissima. Come tanti altri divieti, anche questo resterà inascoltato e la parrucca divenne il simbolo barocco di un’epoca, tanto che non era considerato uomo savio e moderato, colui che non la portava. )) candida ed incipriata sotto il “corno”; cosa che peraltro fecero tutti i suoi successori fino alla fine della Repubblica; può essere che quel ricciolo sia un segno rappresentante ciò; forse il terminale di un fiocco che faceva parte della parrucca?
Sono convinto che la spiegazione sia un’altra; è assodato che in questo periodo il Doge non tiene più la “rensa” allacciata sotto il mento, ma i suoi laccioli vengono lasciati cadere sulle spalle. Ecco che questo ricciolo potrebbe (il condizionale è d’obbligo), sebbene in maniera grossolana, rappresentare questo dettaglio che, con il tempo e con il generalizzato peggioramento dell’incisione dei coni, avrebbe assunto una iconografia irrealistica, quasi grottesca, quale si vede negli ultimi zecchini emessi.
Gli zecchini degli ultimi tre Dogi sono i peggio realizzati; mai fino ad ora si sono potuti vedere zecchini dalle incisioni tanto grossolane ed artisticamente scadenti.
E’ un controsenso inspiegabile, tanto più lo è se consideriamo gli alti livelli di incisione che si sono riscontrati in altri moduli emessi sotto gli stessi Dogi; basta vedere la serie dei talleri d’argento, dei ducatelli d’argento, per non parlare dei multipli di zecchino in oro.
Con Paolo Renier (1779 – 1789) lo scadimento delle immagini è importante; sembrano quasi il risultato di un tratteggio nervoso, pochi tratti ed ecco fatte le figure. (Fig. 27).
La peggiore è quella rappresentante il Doge; non ha più nulla di realistico, sembra che sul suo viso vi sia una maschera. I bottoni a pera alquanto allungati ed il drappeggio posteriore del mantello rendono poi la sua figura in un certo verso inquietante.
Lo stesso dicasi per la gran parte di quelli coniati sotto l’ultimo Doge Ludovico Manin (1789 – 1797), l’impressione è la stessa, sebbene ce ne siano alcuni di miglior fattura, dove sono state riprese raffigurazioni un poco più realistiche. (Figg. 28 e 29)
Il 12 maggio 1797 si riunisce per l’ultima volta il Maggior Consiglio e “periva una Repubblica confermatasi libera e gloriosa per ben tredici secoli, un governo che quantunque non senza difetti, più di molti altri poteva formare la felicità dei suoi sudditi (( Biblioteca Marciana Venezia: A. Lamberti cit. “L’Ultimo dei Dogi” )); il 16 maggio il Doge Ludovico Manin lascia il Palazzo Ducale e si trasferisce a Ca’ Pesaro e contestualmente si insedia la Municipalità Provvisoria mentre i francesi entrano in città.
Il successivo 21 luglio parte del tesoro di San Marco viene trasportata in zecca per essere fusa, assieme agli ori e argenti delle varie chiese e conventi di Venezia e le razzie proseguiranno a lungo fino alla spoliazione della Repubblica di tutti i suoi beni e di tutti i suoi tesori.
Venezia, ridotta a merce di scambio, viene ceduta con il trattato di Campoformio all’Austria, le cui truppe entrano in città il 18 gennaio 1798 sotto il comando del generale Wallis.
Proprio all’Austria di Francesco II dobbiamo il tentativo di far rivivere lo zecchino con due tipi, denominati rispettivamente “vecchio” e “nuovo” conio, di dimensione e peso uguale ai precedenti. Il primo riprende in toto l’iconografia degli ultimi esemplari cambiando solo la legenda dove, al posto del nominativo del Doge, viene impresso FRANC. I (o FRANC. II); il secondo, oltre alla modifica della legenda in FRANC. II, presenta al rovescio il Cristo che, al posto del Vangelo, tiene nella mano il globo crucifero.
Questi nuovi zecchini non ebbero mai un vero e proprio corso, ma furono solo un tragico “canto del cigno”; forse la volontà di infondere un’impressione di continuità, invece irrimediabilmente perduta. Non è morto però lo zecchino, perché è parte integrante della formidabile storia di Venezia.