Cominciamo con lo zecchino coniato sotto il Doge Nicolò Da Ponte (1578 – 1585) che ci riserva una sorpresa; il Doge sembra perdere un braccio! (Fig. 17)
La posizione delle maniche della “dogalina” e le braccia che gli fuoriescono, si fanno così simmetriche da sembrare che siano una sola ad impugnare l’asta del vessillo. Non è così ovviamente, si scorge appena quella in secondo piano, ma d’ora in poi saranno sempre più vicine; le prime a coincidere ed a fondersi perfettamente in una, saranno le maniche; le braccia e le mani si vedranno ancora interamente, fino al dogato di Marcantonio Memmo (1612 – 1615); poi fino alla fine della Repubblica si vedrà una manica ed una mano soltanto. Negli ultimi zecchini, al posto della mano, ci sarà un semplice trattino.
Altra particolarità degna di nota e che si ripeterà fino al termine della coniazione degli zecchini, riguarda quello che vediamo in quello che segue (Fig. 18), emesso sotto Pasquale Cicogna (1585 – 1595).
Ormai le lettere che compongono le legende sono talmente grosse che non è più sufficiente abbreviare i termini, spariscono proprio delle lettere, come succede nel rovescio con il termine “DVCAT” che diventa “DVCA”. Non è un caso isolato, in alcuni zecchini emessi sotto dogati successivi, verrà ridotto a “DVC” ed anche “DV”!
Si veda in proposito gli zecchini che seguono (Figg. 19 e 20).
Con lo zecchino di Marcantonio Memmo (1612 – 1615), vediamo un’altra novità (Fig. 21): sulla cuspide del “corno” compare un elemento raffigurato in pochissimi zecchini; probabilmente è l’ ornamento in oro con gioiello, così come compare spesso nelle raffigurazioni del “corno” usato il giorno dell’incoronazione; la “zogia”, cioè quella corona tempestata di pietre preziose che veniva usata solo in quella occasione e per il resto del tempo veniva conservata nel tesoro di San Marco.
In questo scorcio del famoso quadro di Tiziano Vecellio “Il Doge Antonio Grimani adorante la Fede e S. Marco”, possiamo vedere sulla destra, sorretta dal paggio, la “zogia” e la conformazione che all’epoca doveva avere; la ricchezza di oro, pietre preziose e perle la contraddistingueva da quella più pratica e meno ornata, che il doge portava ordinariamente.
Guardando il rovescio dello zecchino di Giovanni Corner I° (1625 – 1629) ci viene offerto un nuovo spunto stilistico; ci siamo abituati a vedere il Cristo con il capo in posizione frontale, qualche volta leggermente inclinato, ma sempre con lo sguardo rivolto verso colui che sta “leggendo” la moneta.
In questo esemplare (Fig. 22), e qui sta la finezza stilistica, il viso del Redentore è rivolto verso la Sua sinistra ed il Suo sguardo è altrove, ben oltre il poco spazio che si crea tra i Suoi ed i nostri occhi. Guarda in alto, all’infinito.Questa ricercatezza stilistica verrà ripresa anche in zecchini emessi successivamente, anche con il viso del Redentore ed il Suo sguardo rivolti verso la Sua destra.
Piccole e grandi modifiche nell’iconografia dei ducati continuano con la serie dei Dogi seguenti:
Nicolò Contarini (1630 – 1631)
Francesco Erizzo ( 1631 – 1646)
Francesco Molin (1646 – 1655)
Carlo Contarini (1655 – 1656)
Francesco Corner (1656)
Bertucci Valier (1656 – 1658)
Giovanni Pesaro (1658 – 1659)
Domenico Contarini (1659 – 1675)
Nicolò Sagredo (1675 – 1676)
Alvise Contarini (1676 – 1684)
Marcantonio Giustiniani (1684 – 1688)
Francesco Morosini (1688 – 1694)
Silvestro Valier (1694 – 1700)
Continua anche l’elezione alla dignità di “Serenissimo” di personaggi oltremodo anziani, al limite delle loro capacità fisiche e mentali; persone di gran lustro, è vero, pure ricche, ma che potevano soprattutto recitare bene la loro parte, il loro ruolo rappresentativo, ma nulla più.
Salvo rare eccezioni questi Dogi hanno rivestito la loro carica per pochissimo tempo, come ad esempio il Doge Nicolò Contarini (1630 – 1631), che restò in carica poco meno di un anno; eppure il Ducato emesso nel periodo del suo “regno” è tra i più suggestivi. (Fig. 23)
Le immagini che possiamo leggere sul suo zecchino sono, soprattutto in quella riportata nel rovescio, sontuose; l’immagine di Cristo, seppur rimpicciolita e poco precisa (vedasi la mano benedicente sproporzionata rispetto all’esile Sua figura) è contornata da ben 21 stelline, ne ha pure una sopra l’aureola (non più perlinata) e una sotto i piedi. Tutte le lettere sono grandi, chiare e ben spaziate tra loro.
Dobbiamo attendere fino al dogato di Domenico Contarini (1659 – 1675) per avere un elemento nuovo nello zecchino (Fig. 24). In cima all’asta, proprio sopra la bandiera viene posta la croce. Si aggiunge così un elemento cristiano in una moneta che già abbonda di simbolismi analoghi.
Saranno forse gli ultimi sussulti della controriforma ormai al tramonto, o sarà forse un richiamo alla moralità ed alla continenza che la società veneziana ha ormai perso?
E’ l’epoca del lusso, dello sfarzo, delle maschere in “bauta” (( Bauta: tipica maschera veneziana creata nel settecento e indossata non esclusivamente durante il carnevale. Era accettata ed usata da ogni strato sociale e considerato l’uso generalizzato, fu dalle leggi regolamentato; permetteva di celare non solo il volto, ma data la sua particolare forma, anche di distorcere la voce, nonché mangiare e bere senza bisogno di toglierla e quindi essere ancor più funzionale allo scopo. )), delle parrucche incipriate e dalle varie fogge; elemento inscindibile dal barocco che impera a Venezia. Il Magistrato alle Pompe, con le sue leggi suntuarie, fa di tutto per frenare questi aspetti decadenti e corrotti emanando nuove leggi, sempre più particolareggiate e restrittive, ma non c’è verso, i veneziani non se ne curano (il detto popolare dice: parte veneziana dura una settimana); Venezia è la capitale indiscussa della vita godereccia, dei ciccisbei (( Ciccisbeo o cavalier servente: era il gentiluomo che si prestava ad accompagnare una nobildonna sposata nelle occasioni mondane e la assisteva in tutte le incombenze proprie della giornata, dalla toletta, alle commissioni in genere o la semplice compagnia. )) e della nobiltà disimpegnata e gaudente.
Vediamo anche che il braccio benedicente del Cristo si sposta leggermente verso l’esterno e il Suo sguardo è rivolto verso la Sua destra.
Già con il Doge successivo, Nicolò Sagredo (1675 – 1676), l’asta viene privata del vessillo e in cima resta unicamente la croce e sotto di questa due “rigonfiamenti”. (Fig. 25)
Non ho trovato alcuno scritto che spiegasse il significato dei due rigonfiamenti; in genere questi potrebbero essere presenti nelle aste delle bandiere o delle lance nel punto in cui vanno impugnate, quindi molto più in basso, così che la mano che le tiene abbia una maggior presa e non scivoli, ma a quella altezza non hanno per me spiegazione.
Potrebbe essere che i due rigonfiamenti, stranamente coincidenti con i vertici del segmento verticale della “D” di DVX rappresentino i nodi che legano la stessa “D” all’asta qualora la si volesse identificare con la bandiera mancante.
E’ singolare che Cesare Gamberini di Scarfèa, nell’illustrare le differenze presenti negli zecchini emessi a nome di Dogi omonimi, per quello di Alvise Mocenigo II° identifica proprio la “D” di DVX con la banderuola.
Se così fosse veramente, sarebbe stato un vero colpo di genio artistico dell’incisore, ma non sapremo mai se fu cosa voluta da chi preparò questi conii, oppure se fu solamente il caso. Certo è che con gli zecchini successivi questa particolarità si perse.