Angelo Cutolo
Le vicende di Fra’ Diavolo fanno corpo, sino a fondersi, con quelle dell’insorgenza dei sanfedisti, ferventi oppositori della Repubblica partenopea del ’99, creata dai patrioti giacobini e proclamata il 23 gennaio 1799 dopo che l’esercito francese comandato dal generale Championnet vinse le ultime resistenze borboniche e prese Castel Sant’Elmo a Napoli.
Il 19 giugno 1799 entrarono a Napoli delle truppe e delle bande sanfediste, che in nome del re Ferdinando IV di Borbone, condotte dal cardinale Fabrizio Ruffo di Bagnara e appoggiate da una squadra navale inglese al comando dell’ammiraglio Horatio Nelson travolsero, il 23 giugno, la Repubblica partenopea difesa dai giacobini napoletani, sterminati poi dal sovrano reinsediato sul trono con l’appoggio dell’Inghilterra: per volontà dell’ammiraglio Nelson e della regina Maria Carolina d’Asburgo-Lorena furono violati i patti sottoscritti dai giacobini con Ruffo, che garantivano la salvezza ai difensori della Repubblica, così più di cento patrioti vennero giustiziati.
In “Brigantaggio, proprietari e contadini nel Sud (1799 – 1900) – Michele Pezza Fra Diavolo”, Reggio Calabria 1976, Gaetano Cingati ha scritto: “Il 1799 nel Mezzogiorno è l’anno della grande anarchia, della feroce guerra tra giacobini e sanfedisti, tra patrioti e briganti. Nessun altro periodo posteriore, nemmeno il 1848, l’anno classico della rivoluzione, o il primo decennio unitario, quando esplose il grande brigantaggio, richiama, come il ’99, una così spietata lacerazione del tessuto sociale, uno scontro tanto violento di idee, di passioni, di costumi, d’interessi”. E poi: “Entrato nella leggenda popolare e nella letteratura, è il simbolo del brigantaggio di quegli anni e per taluni il prototipo dei pionieri della guerriglia popolare antifrancese”.
Fra’ Diavolo, soprannome del capomassa Michele Pezza, è uomo del suo ambiente e del suo tempo, ne visse tutte le contraddizioni, le ambiguità e i drammi. Piccolo borghese di famiglia di origine popolare, si trovò a capeggiare un moto insurrezionale le cui implicazioni politico-ideologiche profonde gli sfuggivano. Uomo d’azione e capo militare, egli va valutato e giudicato esclusivamente sotto tale veste: Fra’ Diavolo non fu forse il più importante dei capimassa del 99, ma fu certamente il più famoso.
Il fatto stesso che i capimassa più importanti, come del resto i cabecillas spagnoli, fossero conosciuti con un soprannome (Fra’ Diavolo, Sciabolone, Sciarpa, Panedigrano), indica che il popolo li riteneva fuori delle gerarchie sociali tradizionali.
Tra la fine del ’700 e gli inizi dell’800, del resto, anche gli eserciti regolari non erano così “regolari”: spesso si abbandonavano al saccheggio, alla spoliazione e all’omicidio.
Michele Pezza dimostra chiaramente che a prendere l’iniziativa di formare le masse furono in genere persone nuove, giovani e spregiudicate, appartenenti non alle classi subalterne ma alla piccola borghesia di paese. Si trattava di capi improvvisati, privi di cariche ufficiali e fuori delle gerarchie dell’ancien regime; erano spesso elementi che avevano sino ad allora agito ai margini della legge o addirittura fuori di essa. In un momento di teatrale emergenza e di completo collasso politico-istituzionale come quello, erano proprio i fuorilegge, i banditi, i briganti ad avere quell’essenze d’iniziativa, di spregiudicatezza, di collegamenti, di conoscenza del terreno e di violenza necessarie a condurre la guerra per bande.
Nelle memorie del colonnello Joseph Léopold Sigisbert Hugo, colui che lo catturò e padre dello scrittore Victor Hugo, così viene descritto: “Fra’ Diavolo personificava quel tipo che si riscontra in tutti i Paesi in preda allo straniero, il bandito legittimo in lotta con la conquista. Egli era in Italia quello che poi sono stati l’Empecinado in Spagna, Canaris in Grecia, ovvero un patriota, un legittimista”.
Le vicende di Fra’ Diavolo fanno corpo inoltre col “brigantaggio” antifrancese del 1806.
A mezzogiorno dell’11 novembre del 1806 Michele Pezza, alias Fra’ Diavolo, fu impiccato: l’impiccagione scaturita dalla sentenza seguita a un veloce processo, nonostante l’appassionata difesa di un principe del foro del tempo, l’avvocato Francesco Lauria, pose fine, a soli 35 anni, alla vita di Michele Pezza che entrava nella leggenda come Fra’ Diavolo.
Sulla figura di Michele Pezza, detto Fra’ Diavolo, il giudizio dei contemporanei mutò a seconda che parteggiassero per i Borbone di Napoli o che inseguissero i lumi della rivoluzione giacobina, importati dalle armate francesi ed alimentati dalle eroiche illusioni della fragile Repubblica Partenopea.
Michele Arcangelo Pezza nacque alle ore 10 del 7 aprile del 1771 ad Itri, paese della Terra di Lavoro, da Francesco Pezza e Arcangela Matrullo, in una delle famiglie più in vista del paese. La madre lo diede alla luce in una casa del centro storico d’Itri. Venne battezzato nella Parrocchia di S. Maria Maggiore d’Itri, come risulta al n. 509 del registro dei battezzati della Parrocchia di S. Maria Maggiore d’Itri: “don Francesco Iudicone, battezzò […] un maschio nato alle ore 10 del 7 aprile del 1771 da Francesco Pezza e da Arcangela Matrullo cui furono imposti i nomi di Michele Arcangelo, Domenico, Pasquale”.
All’età di cinque anni, una grave malattia mise a serio rischio la sua vita e la madre fece un voto a San Francesco di Paola, lo promise frate affinché si salvasse: il voto consisteva nel vestirlo con un saio da frate e quando il vestito si fosse logorato, l’avrebbe riportato al Santo per sciogliere il voto. Per adempiere al voto Michele trascorse tutta l’infanzia, sino all’inizio dell’adolescenza, vestito con il saio, guadagnandosi il soprannome di “Fra’ Michele”, trasformato poi dal canonico Nicola de Fabritiis date l’intemperanza e la svogliatezza del fanciullo, che gli era stato affidato, come altri fanciulli, per ricevere la prima istruzione, spazientito, in “Fra’ Diavolo”.
Il padre, mulattiere, svolgeva anche un piccolo commercio di olive ed olio nei paesi viciniori e Michele Arcangelo aiutava il padre nel lavoro nei campi, ma, dato che era interessato più ai cavalli che alle olive il padre lo mandò a lavorare presso la bottega di Eleuterio Agresti, sellaio del paese. Rimase per alcuni anni nella sua bottega.
Un giorno Eleuterio in seguito a una lite aggredì fisicamente Michele Arcangelo, che, di risposta, uccise con un grosso ago usato per imbastire le selle il mastro sellaio e il fratello, Francesco Agresti (detto “Faccia d’Argento”), che voleva vendicarlo. Iniziò così un periodo di vagabondaggio sui Monti Aurunci, dove si mise al servizio del barone Felice di Roccaguiglielma nel feudo di Campello. Poi si trasferì a Sonnino, nello Stato Pontificio, appoggiandosi ad una famiglia itriana che vi si era trasferita; da latitante, entrò in contatto con numerosi briganti, con cui instaurò buoni rapporti e dai quali ricevette considerazione di capo.
Nel 1796 il Regno di Napoli inviò quattro battaglioni del suo esercito a combattere in Lombardia al fianco degli alleati austriaci contro l’esercito di Napoleone Bonaparte, che aveva invaso l’Italia del nord e nel 1797 Michele Arcangelo fece domanda affinché la pena per il duplice omicidio fosse commutata in servizio militare. La domanda fu accolta, il comando di polizia deliberò che il servizio militare sarebbe durato tredici anni e nel 1798 Michele Arcangelo fu arruolato aggregato al reggimento “Messapia” e partì soldato nei fucilieri della fanteria borbonica che operarono nello Stato Pontificio.
Il fortino di Sant’Andrea, edificio costruito nel XVI secolo sui resti di antichi templi dedicati ad Apollo e Mercurio divenne la prima roccaforte da cui assalire i soldati francesi e le carrozze di passaggio. La colonna dell’esercito francese entrò nel territorio di Itri a metà dicembre e subì gli attacchi inaspettati della banda di Fra Diavolo, tanto che i francesi chiamarono i rinforzi. Il 29 dicembre tre battaglioni polacchi occuparono il fortino, poi entrarono a Itri: il paese fu saccheggiato e molti abitanti, tra cui anche il padre di Fra Diavolo, furono uccisi.
Fra’ Diavolo riparò sui monti, raccolse seicento uomini e pensò di fare della fortezza di Gaeta, la più potente del regno, la sua roccaforte, per coprirsi le spalle prima e dopo gli attacchi. Ma il 31 dicembre, scoprì che il colonnello svizzero Tschudy, aveva concesso la resa ai francesi, allora Fra Diavolo si sentì tradito dai generali stranieri al soldo del Regno e riorganizzò le sue masse e, dato che l’esercito francese aveva già attraversato il Garigliano, decise di sollevargli contro tutta la Terra di Lavoro, ma dodici giorni dopo venne a sapere del Trattato di Sparanise: anche il generale Mack si era arreso al nemico senza combattere.
I francesi del generale Jean Étienne Championnet invasero il Regno, sbaragliando l’esercito borbonico e il 15 febbraio, dopo alcuni giorni di disperata ed eroica resistenza da parte dei Lazzari, Napoli cadde; Re Ferdinando IV di Borbone si ritirò a Palermo, mentre veniva proclamata la Repubblica partenopea, la quale non ebbe la sovranità su tutto il territorio del Regno, dato che le zone più periferiche erano saldamente nelle mani della guerriglia legittimista. Fra’ Diavolo, riparato ad Itri, rispondendo al proclama del Re che incitava a resistere contro i francesi in nome di Dio, della famiglia, della propria terra, organizzò, grazie al denaro versato dai paesi intorno a Itri, una massa armata di un migliaio di persone, tra cui vi era anche un medico. Frattanto Ferdinando IV aveva stretto alleanza con Austria e Inghilterra per muovere guerra ai francesi.
Nel 1799 Fra’ Diavolo si presentò agli inglesi, nella loro base nell’isola di Procida, come soldato del Regno di Napoli, chiedendo e ottenendo due cannoni e una barca. Fissò la sua base a Maranola, vicino al Golfo di Gaeta e continuò la sua attività di taglieggiamento delle comunicazioni.
Nel mese di maggio, quando si decise di muovere l’assedio dalla fortezza di Gaeta, Fra’ Diavolo fu scelto come comandante delle operazioni e la sua massa fu riconosciuta come parte dell’esercito regolare. Re Ferdinando IV, dato che gli erano giunte le parole di elogio pronunciate per lui dagli inglesi, lo nominò Capitano, mentre la Regina consorte Maria Carolina d’Austria, per mostrargli la propria ammirazione, gli donò una spilla di diamanti.
Alla fine di giugno, Napoli era stata liberata e il re aveva fatto ritorno nella capitale. Subito vennero elaborati dei piani per conquistare Roma, che rimaneva in mano ai francesi e Fra Diavolo per partecipare all’organizzazione della campagna militare si recò nel capoluogo partenopeo e soggiornò nel palazzo dell’inglese Sir John Acton, primo ministro del governo borbonico.
L’assedio di Gaeta, gestito in prima persona con la sua massa armata fu per Fra’ Diavolo il trampolino di lancio per consolidare il suo carisma di uomo forte e leale alla monarchia, ma il giorno della capitolazione della roccaforte, non gli fu permesso di entrare a Gaeta: i francesi accettarono la resa, a condizione che fossero Nelson ed i rappresentanti del Regno a condurre la trattativa, il Cardinale Ruffo gli ordinò di ritirarsi e anche il Re sostenne che era meglio che non partecipasse all’occupazione, riconoscendo però, in una lettera inviata a Ruffo, l’apporto e i servizi resi da Michele Arcangelo Pezza anche se gli intimava di tenere una maggiore disciplina.
Il 15 agosto del 1799 nella Chiesa di Sant’Arcangelo all’Arena si sposò con la diciottenne Fortunata Rachele di Franco, per la quale entrava di nascosto sia di giorno sia di notte nella Napoli repubblicana, oltre che per tenere i collegamenti con i realisti per organizzare il ritorno di Ferdinando sul trono. L’incontro con il capitano Tomas Troubridge, ufficiale della marina britannica, voluto dalla regina Carolina che, da Palermo, continuava a tessere trame per il ritorno della monarchia a Napoli, gli diede anche onorabilità che lui seppe sostenere, suscitando un buon interesse nell’inglese.
Il 20 agosto partì con l’esercito borbonico, di cui comandava l’ala sinistra, per lo Stato Pontificio. Nel mese di novembre il Re di Napoli ordinò di attaccare Roma e l’esercito, di cui fa parte anche Frà Diavolo, conquistò Roma il 27 novembre e due giorni dopo il sovrano fece il suo ingresso trionfale. L’esercito napoletano, guidato dall’austriaco Karl Mack von Leiberich, fu sciolto, dato che per garantire i rifornimenti di viveri alle truppe erano stati saccheggiati i villaggi vicini, per di più alle masse non venne concesso di entrare in città e inoltre vennero disarmate e la paga fu tagliata.
Fra Diavolo mentre dormiva ad Albano venne arrestato e incarcerato a Castel Sant’Angelo, per ordine del generale dell’esercito napoletano, Diego Naselli, che non sapeva che il 24 ottobre, da Napoli, il sovrano aveva nominato Michele Pezza colonnello di fanteria; nella notte tra il 3 e il 4 dicembre fuggì e giunse a Napoli, dove ottenne di essere ricevuto dal Re Ferdinando IV che lo ricompensò cancellando i debiti che la sua armata aveva contratto per le battaglie sostenute.
Michele Arcangelo Pezza in qualità di Comandante Generale del dipartimento di Itri ritornò nel paese natale. Nacque il figlio Carlo, poi il figlio Ferdinando e infine la figlia Maria Clementina, ma avendo preso l’impegno di pagare tutti i finanziatori delle imprese di Gaeta e di Roma voleva far revocare il decreto reale che annullava i debiti, per farlo si recò a Napoli con tutta la famiglia, abbandonando l’incarico di Comandante Generale e affittò un appartamento in via Marinella. La sua istanza dapprima si perse negli uffici dell’amministrazione reale e, quando scrisse alla persona del Re, chiedendo di poter vendere la propria pensione per rimborsare i suoi finanziatori, la richiesta fu respinta.
Nel 1806 Napoleone Bonaparte, dato che non veniva rispettato il trattato di neutralità, inviò le sue truppe per mettere fine al governo borbonico di Ferdinando IV, così le truppe francesi occuparono nuovamente Napoli e le varie piazzeforti del regno e il Re Ferdinando IV emanò un altro proclama per il reclutamento di volontari. Il Colonnello Pezza con prontezza lasciò Napoli e tornò nelle province a reclutare uomini di tutte le risme, purché abili alle armi e fu nominato capo dei Corpi Volanti di Terra di Lavoro.
Mentre ci si preparava alla guerra, il Re s’era ritirato a Palermo e da qui ordinò ai comandanti dei Corpi Volanti di non aggredire l’armata napoleonica
Fra’ Diavolo entrò in contatto con il principe d’Assia e comandante della piazzaforte di Gaeta, Luigi Philippstadt, che come lui era intenzionato a disobbedire alla resa. Frà Diavolo e Philippstahl iniziarono una collaborazione attiva che divenne l’incubo di Giuseppe Bonaparte fratello di Napoleone I, incoronato Re di Napoli per volere di Napoleone stesso.
Fra’ Diavolo si recò alla fortezza di Gaeta e pochi giorni dopo i francesi la cinsero d’assedio. Nelle settimane seguenti Fra Diavolo lanciò audaci attacchi francesi e poi li sfidò in campo aperto con pochi uomini, rischiando di essere catturato, insieme al fratello Nicola, a Sant’Oliva, ma riuscì a riparare a Maranola, e da Scauri s’imbarcò per Gaeta.
Verso la fine di aprile Fra Diavolo fu chiamato a Palermo da Ferdinando IV che lo presentò all’inglese Sidney Smith, ammiraglio della flotta reale, per tentare la sommossa delle Calabrie e l’avanzata dell’esercito fino a Napoli. Il 28 giugno Smith fu nominato comandante in capo della spedizione e Fra Diavolo luogotenente. Il 29 giugno Fra’ Fra Diavolo, alla testa della sua «Legione della Vendetta», sbarcò con navi inglesi ad Amantea e conseguì diverse vittorie sui francesi.
Il generale francese Verdier riparò verso Cassano, i cui abitanti lo respinsero. Proprio quando la sollevazione stava diventando generale, la flotta inglese lo ricondusse a Palermo per ricevere da Ferdinando IV il titolo di Duca di Cassano, ma i calabresi lasciati alla mercé dei francesi capitolarono e tale sorte toccò anche alla fortezza di Gaeta. Fra’ Diavolo tentò di sollevare, alle spalle dei francesi, la Campania e il 2 settembre sbarcò a Sperlonga per dirigersi a Itri.
Ma riuscì ad arruolare solo cinquecento uomini e a sottrarre ai nemici due cannoni, perciò si trincerò a Sora, che fu attaccata da tre lati essendo le truppe francesi costituite da 10000 soldati. La battaglia perdurò tre giorni e poi Fra Diavolo si diresse nella valle del fiume Roveto per prendere, il 29 settembre, i francesi di sorpresa e così si rifugiò sulle montagne di Miranda, divenne l’uomo più ricercato del regno con una taglia che raggiunse i diciassettemila ducati.
Con trecento uomini, Fra’ Diavolo attraversò Esperia, Pignataro, Bauco, Isernia invogliando la popolazione a sollevarsi contro i francesi che intanto bloccarono tutti gli accessi alle valli. Fra Diavolo non poteva uscire più dal suo nascondiglio e fu nominato maestro di caccia il colonnello Joseph Léopold Sigisbert Hugo (padre dello scrittore Victor Hugo). L’inseguimento durò quindici giorni, al termine del quale la massa di Fra Diavolo fu stretta nella valle di Boiano, dove si combatte per sei ore anche perché la pioggia, che cadeva da giorni, aveva reso inservibili i fucili. L’attacco francese fu respinto con le spade; in questa battaglia morirono quattrocento francesi e quaranta insorti. Frà Diavolo sfuggì alla cattura e si diresse verso Benevento con centocinquanta uomini rifugiandosi nelle Forche caudine; Hugo lo trovò e lo affrontò e Frà Diavolo rimase con circa cinquanta uomini.
Giunto sulla spiaggia di Cava de’ Tirreni ordinò ad ognuno di prendere la sua strada. Vagò per giorni e giorni da un paese all’altro, sperando di raggiungere il Tirreno e chiedere agli inglesi, che stazionavano sulla costa, un imbarco per Palermo. Rimasto solo, ironia della sorte, il Colonnello fu assalito da briganti che lo pestarono e lo abbandonarono in una capanna morente e il 1º novembre, esausto, raggiunse Baronissi: non convincendo il comandante della guardia nazionale del posto, il farmacista Matteo Barone che lo aveva ospitato per una bevuta, venne condotto sotto scorta a Salerno dove riuscì a tenere testa alle domande dei francesi, ma fu riconosciuto da un vecchio militare borbonico passato ai francesi, e che aveva combattuto con lui a Gaeta e fu condotto in prigione a Napoli, dove fu istruito, il 10 novembre del 1806, a suo carico, con grande rapidità, un processo. Le autorità francesi rifiutarono la richiesta degli inglesi affinché venisse considerato prigioniero di guerra persino lo stesso Hugo, che era stato a trovarlo in carcere, ebbe un netto rifiuto da parte di Giuseppe Bonaparte: tutte le richieste furono respinte con motivazioni politiche e militari. Fu considerato un delinquente comune e fu condannato a morte per impiccagione. Fu giustiziato per impiccagione in piazza del Mercato l’11 novembre, vestito con l’uniforme di brigadiere dell’esercito borbonico, e il suo corpo venne lasciato molte ore bene in vista, come monito alla popolazione e dopo fu sepolto presso l’ospedale degli Incurabili. Re Giuseppe Bonaparte, comunicò al fratello Napoleone che Fra’ Diavolo era stato giustiziato, ma la Real Famiglia di Ferdinando IV appresa l’impiccagione di Pezza, fece celebrare, a Palermo, dall’Arcivescovo Carrano, una messa solenne nella chiesa di San Giovanni dei napoletani, a cui parteciparono molte autorità, l’ambasciatore austriaco, il Principe Leopoldo di Borbone, la guarnigione militare in alta uniforme e un distaccamento di soldati inglesi.
Se la vita di Fra’ Diavolo è stata avventurosa, singolare, rocambolesca non meno avventurose, singolari, rocambolesche sono state le vicende del manoscritto in cui egli stesso scrisse le sue memorie del 1798 – 99.
Il 26 settembre 1806 i francesi che avevano espugnato Sora, sequestrarono nell’abitazione in cui aveva dimorato e che aveva abbandonato frettolosamente, per cui non aveva avuto tempo di portarli via, 21 documenti appartenenti a Fra’ Diavolo, documenti che il generale d’Espagne si affrettò a trasmettere al ministro dello Stato Maggiore Generale, Cristoforo Saliceti.
I 21 documenti sopracitati ed elencati nella “NOTA ED ESTRATTO DELLE CARTE RITROVATE A SORA NELLA CASA DI ABITAZIONE DI FRA’ DIAVOLO”, custodita nell’’Archives Nationales, Paris, 381 AP4, dossier 4, Ministère de la Police générait’ 1806 – 1808, Pièces diverses e riportata anche nel presente scritto
Quando il Re Giuseppe Bonaparte, fu trasferito da Napoleone nella primavera del 1808 dal trono di Napoli a quello di Spagna, portò con sé il suo archivio e quando, il 21 giugno 1813, fu definitivamente sconfitto a Vitoria dall’armata anglo-spagnola di Wellington, passò nelle mani inglesi. Trasportato a Londra, fu sistemato nel palazzo d’Aspley House, dove fu mai consentita la consultazione ad alcuno sino alla morte di Gerard Wellesley, settimo duca di Wellington, quando, nel 1977, l’importante fondo archivistico fu acquisito dallo Stato francese e trasferito agli Archives Nationales di Parigi, Archives de Joseph Bonaparte roi de Naples. puis d’Espagne (381 AP). Ed è appunto agli Archives Nationales, nel dossier 4 dell’Archivio di Giuseppe Bonaparte, che raccoglie le carte del Ministère de la Police générale 1806-1808, che si sono rinvenuti il manoscritto originale delle memorie del 1798 – 99 a firma Comandante Generale Michela Pezza fra Diavolo, a cui fu aggiunta una soprascritta in francese (Faits historiques des campagnes de Fra’ Diavolo rédigés par lui même, et trouvé dans ses papy ers lors du sequestre de ses bons. Julliet 1806) e i 21 documenti elencati nella NOTA ED ESTRATTO DELLE CARTE RITROVATE A SORA NELLA CASA DI ABITAZIONE DI FRA’ DIAVOLO.
Le memorie del 1798 – 99 di Fra’ Diavolo si compongono di 35 fogli a mezza pagina, scritto con discreta calligrafia in un italiano popolareggiante e spesso dialettale; i periodi, caotici e complessi, sono comunque quasi sempre comprensibili logicamente. Sembra che le memorie, in cui l’autore scrive sempre in terza persona, sia stato scritto direttamente da Michele Pezza fra Diavolo, come emerge dal raffronto della scrittura con altri suoi documenti, ma non si riesce a stabilire se sia la versione originale o se una stesura successiva. Il periodo scritto a cavallo della fine del foglio 28 e inizio del foglio 29 « Di là poi passò in Albano, e formò quartiere quattordeci miglia distante da Roma, e prese tutti i migliori posti dividendo la sua truppa per poter battere l’infame nemico, né da quel punto s’intese più perdita dell’armi napolitane, non tralasciando giorno e notte di andare con 100 uomini alle porte di Roma, e dentro la città di notte per regolar le sue mire, ma non si son rischiati mai i Francesi e Patriotti uscir fuori, e che se lui avesse avuto un altro migliaio di persone avrebbe pigliato Roma per assalto, ma anche per andar di concerto con Rodio non li riuscì, come si rileva da una lettera da lui scritta al 31 agosto [f. 29] da lui scritta e fatta in Velletri per Napoli al suo strettissimo amico che il pensiere [aveva] avuto e l’impegno di queste notizie raccogliere, e formarne questo scritto.» lascia intendere che vi sia stata una collaborazione di una terza persona nell’ideazione e nella stesura dell’opera.
NOTA ED ESTRATTO DELLE CARTE RITROVATE A SORA NELLA CASA DI ABITAZIONE DI FRA’ DIAVOLO
Maestà
Battuti e discacciati da Sora i briganti della masnada di Fra Diavolo, nella casa da esso abitata furon rinvenute alcune carte, che la necessità di una precipitosa fuga aveagli fatte abbandonare. Il Generale d’Espagne nel parteciparmi l’azione seguita in Sora, di cui ha indirizzato distinto dettaglio allo Stato Maggiore Generale, mi ha rimesse le accennate carte.
L’esame delle medesime non offre alcun avviso o notizia rilevante. Due sole cose sembran degne di osservazione: la prima, che i briganti erano ordinati come Truppe regolari col nome, che altra volta davasi alle Masse, di Corpi volanti. La seconda, e questa merita maggiore attenzione, dimostra che i briganti del Regno ricevono soccorsi e rinforzi dalle popolazioni dello Stato Pontificio, colle quali sono in comunicazioni.
Qui compiegata ho l’onore di presentare a V.M. la nota ed estratto di tutte le carte ritrovate.
Saliceti
26 settembre [1806]
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Rapporto a Fra Diavolo dell’Alfiere Rosario Sherbo Comandante in Sora alla Porta di Roma.
Questi, in data de’ 23 corrente, riferisce di non esservi nulla d’importante in quel Posto.
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Lettera di Giovanbattista Giovannelli degli 11 decembre 1799 diretta da Roma ad Antonio Spoglia in Sora.
Rimette in essa lettera un attestato del Tenente [Generale] Rodio a favore di Antonio Spoglia.
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Proclama di Fra Diavolo a Sora, del 13 settembre 1806. Ordina il ritorno in Sora agli assenti fra 24 ore, sotto pena di confisca di tutti i beni; consegna d’armi e munizioni, sotto pena di esser considerati come ribelli.
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Passaporto del 14 aprile 1805 fatto in Roma, firmato dal Cardinal Consalvi, riveduto dal Segretario di Legazione di Francia, a favore di Vincenzo Rosati, che va da Roma a Parma.
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Carta manoscritta, che contiene la distribuzione delle forze di Fra Diavolo in Sora e nel contorno.
I Posti guardati son nove, cinque Porte, e tre Posti sulla sponda del fiume; la somma degli uomini di guardia è di 694.
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Lettera di Francesco de Bellis a Carlo Carrara in Sora, senza data. Invio di monete antiche.
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Cifra.
Non intesa.
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Ordine di Fra Diavolo agli abitanti di Casalvieri.
A Preti in specie, e agli altri del Paese di porsi la coccarda rossa.
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Lettera di Carlo Panetta, senza data e indirizzo, a un tale, che intitola Eccellenza.
Dimanda soccorso, per essere stato disfatto dai Francesi. La lettera pare in data di Atena [sic].
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Lettera di Francesco Mancini Capitano a Fra Diavolo, senza data. Da conto della sua marcia, dice di esser mancato poco di sorprendere 150 Francesi sul monte S. Pancrazio, che si son ritirati in Campoli. Dice di aver 50 uomini; ne chiede altri 70 di rinforzo per assalire i Francesi; si fa sicuro della vittoria.
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Lettera in data del 23 settembre da Roccarivi [Roccavivi], firmata da Filippo di Battista, e da Francesco di Grazia.
Chiedon forza per Roccarivi, dicendo che ivi può passare più che altrove Francesi da massacrare. Si raccoglie, che da Capestrello ed a Rocca vi è posta della gente armata in agguato.
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Lettera di Pietro Mancini Capitano a Fra Diavolo, in data del 23 settembre da Campoli.
Rende conto con precisione estrema del luogo ove son situati a Campoli i Francesi. Chiede delle razioni.
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Lettera di Domenico Braccioli, de’ 23 settembre. Manca l’indirizzo. Pare di un inferiore ad un superiore; è in data di Atena [Atina], Avvisa che in S. Germano vi sono 100 Francesi assediati sul colle di Roccasecca, che spera di far prigionieri. Aggiunge, che a Pesco a Serali vi sono altri 100 Francesi circa. Aspetta notizie da S. Germano e Piedimonte. Chiede munizioni.
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Lettera di Carlo Panetta a Fra Diavolo, in data di Atena [Atina], 20 settembre.
Scrive, che tutti i Francesi che furon battuti da lui, si son concentrati in S. Germano. Chiede in ajuto la massa degli abitanti di Casalese, per dargli l’assalto. Finisce col dire: «Siamo nel pericolo, restando in Atena, di esser bruciati, ma comunque sia, siam pronti a tutto».
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Lettera di Vincenzo Fantauzzi Comandante a Fra Diavolo in Sora, in data del 23 settembre, da Bassorano.
Da conto che circa 200 uomini di massa dello Stato Romano son venuti per la volta di Carsoli e di Iesi fino a Tagliacozzo in ajuto.
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Instanza generica, senza data, nè nomi, fatta dai Galeotti a Fra Diavolo.
Chiedono di essere uniti in truppa, per servire contro i Francesi, sotto il comando di Donato Valsano.
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Lettera dei Sindici di S. Donato, [in] data 16 settembre, senza indirizzo. Pare però [indirizzata] a Fra Diavolo.
Inviano Ferdinando Gramegna a ricever gli ordini, in nome della popolazione.
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Rapporto fatto da un Alfiere alla Porta di Roma in Sora.
Da conto di un piccolo fatto del Quartiere.
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Lettera di Vincenzo Boccari, 17 settembre, in data di Alvito, a Fra Diavolo.
Parla di esecuzioni di ordini, che non sono specificati.
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Lettera di Berardo Tancredi e Filippo Mattei a Fra Diavolo, in data de’ 16 settembre, da Civitella di Roveto.
Offrono gli omaggi della popolazione di Civitella, gente, armi, munizioni.
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Notamento distinto e nominativo di sei compagnie, e di una di Cacciatori di Campagna.
Ascendono gl’individui notati, col loro Stato Maggiore, a 573.
Istoria delli fatti accaduti a D. Michele Pezza dal giorno 17 DICEMBRE 1798 PER LA RIVOLUZIONE ACCADUTA NEL REGNO DI NAPOLI ALL’ENTRATA DE’ FRANCESI1.
Essendo giunto l’ordine del Tenente Generale il Duca della Salandra, che tutte le popolazioni si fossero armate in difesa del nostro amabilissimo Sovrano Ferdinando IV Dio Guardi contro l’infame sedicente Repubblica, essendo D. Michele Pezza alias Fra’ Diavolo della Terra d’Itri provincia di Terra di Lavoro attaccato alla Corona, subito cominciò a fare unione di altri2, scrisse lettere circolari per tutti i Paesi vicini che si fossero armati prestamente, e tutti si fossero portati da lui in Itri, anche coloro che armi non avessero, che dal medemo se li sarebbero date, in maniera tale che in termine di giorni quattro strinse da circa 10.000 [sic] uomini, e si portò subito nel Fortino chiamato S. Andrea, che sta situato nella strada che da Itri si cala alla Città di Fondi unico passo che da Roma si viene nel Regno circondato da montagne, dove stava il Comandante per nome Sicardi. Questo comandava cinque pezzi di cannoni, e teneva sotto di se da circa 1.000
[f. 2] uomini di Fanteria, Cavalleria, Fucilieri di Montagna ed Artiglieri, e si presentò dal suddetto Comandante con tutta la sua gente, a cui il Sicardi gli disse che colà non bisognavano, ma che l’avesse guardato le spalle che per il Fortino penzava lui, a cui rispose il Pezza che per le spalle non dubitasse, e stesse pur sicuro; allora subito si partì colla sua gente, e la divise ne luoghi più opportuni che lui stimò, per dove i Francesi potevano passare per impadronirsi del Fortino, cioè a Sperlonga, a Migliograna, a Vallefredda, alla Madonna della Civita, S. Nicola ed altri luoghi, ed erano dalle Università mantenuti di tutto il bisognevole di bocca e di guerra.
Come di fatti giunti i Francesi nella città di Fondi non mancavano di andare a stuzzicare i suoi, per poter passare avanti, ma sempre erano respinti colla perdita di più Francesi, che un giorno l’inseguirono sin’ a vicino Fondi, dove presero 400 castrati, che i Francesi tenevano, e furono condotti in di lui potere, e fu fatto il calcolo de’ morti francesi da circa 300,
[f. 3] e cinque prigionieri, che furono mandati in Gaeta, altri furono trattenuti ed impediti, per non farli passare circa giorni undeci sempre coll’armi alla mano, di giorno e di notte in mezzo alle gran nevi di cui erano coverte quelle montagne, ma il giorno 29 dicembre 1798 verso la sera s’intese sparare tre colpi di cannone, e poi non s’intese più niente. Credendo il Pezza essere cosa da nulla, ma che ad un’ora della notte giunse un corriere al medemo, e gli disse che il Comandante Sicardi aveva reso il Fortino senza fare alcuna resistenza.
Sentendo questo si restrinse quella poca gente che potè per portarsi alle montagne di Gaeta per poter dare ajuto alla detta Piazza. Ma il fatto si fu che al far del giorno li furono addosso circa 3000 Francesi, con quali stiedero più di otto ore a far foco, e ne massacrarono più di 300, e gl’ altri perseguitarono fin’ a Gaeta, credendo il Pezza non si fusse resa la Piazza, ma il fatto si fu che la trovò resa; avendo ciò inteso tutta la sua gente si scoragì, e subito depositò l’armi per andar nelle loro case, e salvare le proprie famiglie, dal che restò il Pezza
[f. 4] con soli 24 uomini, che non sapeva il medemo cosa farsi.
In capo a sei giorni risolse, e disse a suoi compagni andiamo in Itri a massacrar quei pochi Francesi che vi sono, come di fatto andiedero, e trovarono circa 60 Francesi, che una quantità furono massacrati, ed altri perseguitati fin’a Castellone, e poi ritornarono indietro, ed andiedero a sonare le campane ad armi, al che tutto il popolo corse, ed armossi fin’anche le donne, per cui da diverse donne furono ammazzati molti Francesi; nell’istesso giorno ne massacrarono una gran quantità tutti della piana maggiore, che passavano colle carrozze, come benanche fermarono un corriere che portava una cassa di proclami per affiggerli per i paesi, e fu fatto prigioniere un Generale ed un Colonnello, al che penzò il Pezza portarli prigionieri in Napoli al Generale Pignatelli, per aver dal medemo soccorso di armi e munizioni; giunto che fu a Sperlonga per imbarcarsi, trovò colà circa venti Francesi, e cominciò a far foco, e ne ammazzò sette, ed un Commissario ed un
[f. 5] giacobino fece prigionieri, che in unione degl’altri due condusse in Napoli.
Giunto a Napoli si portò dal Generale, e gli disse che avea portato quattro prigionieri, gli rispose il Generale che li avesse portati al Granatello, che colà avrebbe trovato un Aiutante, al quale doveva consegnarli, come infatti fu eseguito; dopo averli consegnati il Pezza con altri due suoi compagni ritornò in Napoli, e tre altri suoi compagni rimase a guardare li prigionieri; la mattina susseguente si portò di bel nuovo dal Generale, quale pregò che l’avesse data una barca, armi con munizione di guerra, che in capo a giorni sei l’avrebbe ripigliato la Piazza di Gaeta, ma niente li rispose, nè volle darli niente3. Ciò vedendo si portò subito al Granatello, per chiamar li suoi compagni e portarli nella loro patria, ma il fatto si fu che non trovò li suoi compagni, nemmeno li prigionieri, solamente li disse un soldato che nella notte antecedente era venuta una compagnia di Cavalleria da Napoli, e si aveva portato li prigionieri e li suoi compagni in Caserta; sentendo questo si portò subito in Napoli, e prese altri due compagni e si partì per Itri.
Colà giunto di nuovo incoraggi li suoi compaesani, e li portò seco per affrontarsi col nemico, che veniva per abbatterli, che appena fu veduto che si cominciò un vivo fuoco, che non cessò un momento, ma durò circa due ore, e morirono de Francesi da circa 100, ed il restante
[f. 6] fu perseguitato fin a Gaeta, che di timore abbandonarono un carro d’armi ed un altro di munizione e 10 cavalli; questa funzione continuò giorno per giorno, più volte i Francesi tentavano abbatterli, ma sempre valorosamente erano conquassati giornalmente colla perdita di quaranta e cinquanta, senza li feriti, che si fece il bilancio delli morti circa 500 tra soldati e piana maggiore. Per fine li mancò la munizione, son venuti li Francesi, si fece quanto si potè, per cui convenne fuggire, e loro s’impadronirono del Paese, dove fecero sette giorni di sacco, e massacrarono da circa 50 paesani tutti di età avanzata, fra’ quali il capo fu suo Padre. Qual cosa saputasi da suoi figli senza badare al pericolo della vita, uno se lo prese sopra le spalle e l’altri collo schioppo alla mano si fecero strada in mezzo alle sentinelle francese [sic] di notte, e nella sua Chiesa lo seppellirono.
Allora restò con soli 27 uomini e si portò in Maranola, e subito risvegliò tutti quei Paesi convicini, cioè Maranola, Triulo, Casitelnuovo, Spigna, Traetto, S. Maria della Lefna, Pulgarino, Castelforte, Salvagana, le Fratte, Coreno, e radunò da circa 1.700 uomini, di più fece una lettera circolare per tutto lo stato di Sora, Abbruzzo, in nome di Sua Maestà Re delle due Sicilie, quale intesisi subbito abbandonarono le loro famiglie e si avvalse delle seguenti espressioni, cioè:
Eccomi vicino a voi miei cari figli, in breve
[f. 7] sarò tra voi, e non credete che io vi abbia abbandonato e rimasti in preda dell’inimici, il rammarico della mia partenza fu grande, colpa non fu la mia, ma de miei Ministri. Eccomi che sono tornato con una grande Armata, di mare e di terra, e viene in mio soccorso il Sacro Romano Impero, l’Impero Ottomano, oltre altre Potenze. Cari vassali siatemi fedeli, perchè non sarete oppressi: guai a coloro che ànno detto, mentre nell’avvenire non ci sarà chi possa frangere Leggi sì sante,’ che il mio Figlio, vostro Figlio, invigilerà sopra tutte le Provincie per formare la felicità de miei Popoli. Cari vassalli siatemi fedeli, ed il Ciel vi assiste.
Mare di Brindisi mese di gennaio 1199. Vostro Padre e Re Ferdinando IV.
Quale intesi, subito abbandonarono le loro famiglie, e presero le armi in difesa del nostro amabilissimo Sovrano.
Dopo d’ aver ristretto la gente si portò a fronte del nemico che stava al Garigliano, e ne massacrò un gran numero, e poi tagliò il ponte al Garigliano; il giorno seguente vennero circa 4.000 Francesi, ed attaccarono un vivo fuoco, che durò circa tre ore, e siccome era forza maggiore li convenne fuggire, e dopo due giorni si portò nella strada, dove loro dovevano
[f. 8] passare, come in fatti vennero circa 300 con 27 carri di munizione di guerra, quali furono disfatti, ed ànno preso tutta la munizione. Ma sentendo [che] in Traetto stavano lentamente con i suoi andiedero ad assaltarli, e [li] massacrarono senza che ne fusse scappato uno al numero di 242, dove il Pezza si fortifìcò; dopo son venuti con forza maggiore ad attaccarli, e-combattendo valorosamente col nemico restarono i Francesi vincitori convenendo a loro fuggire, che appena sono entrati saccheggiarono, ed ammazzarono una gran quantità di paesani con mandare a fuoco la città; i morti francesi restarono senza numero che restarono in loro potere.
Dopo altri tre giorni si son fatti avanti di bel nuovo, gli ànno sciacciati [sic] dalla detta città che tutti si son ritirati al Garigliano, e perseguitandoli valorosamente l’hanno anche discacciati dal detto luogo, con farli fuggire più di un miglio verso Capua, poi nel giorno [stesso] levarono il ponte di nuovo, e lasciarono una guardia per non far passare nessuno, e si portarono a Gaeta, per affrontare ed abbatter l’ infame nemico, che poco ci voleva a rendersi. Ma in questo momento venne il capoposto che stava al Garigliano, e gli disse [che] erano passati
[f. 9] colle barche più di 4.000 Francesi, e stavano poco lungi da loro. Sentendo i suoi soldati questa notizia fuggirono tutti ne loro paesi, così ancora lui fece lo stesso, ma poi fu appurato bene che erano 400 che cotesto capoposto fece passare, che se non fusse questo tradimento accaduto, avrebbero occupata detta Piazza.
Mentre stava restringendo la sua gente, i Francesi di notte si son fortificati, e formarono di nuovo il ponte al Garigliano, e ci posero quattro pezzi di cannoni, e ci accamparono da 500 uomini, e si ritirarono di nuovo in Traetto, ed in tutti quei paesi che da mano in mano la strada conduce a Roma, ma niente più poterono acquistare mentre li facevano in ogni parte ostacolo, ma bensì non passava giorno che non fussero andati ad attaccar fuoco, che sempre fu sparso gran sangue, non potendo assaltar Traetto per il motivo che si son provveduti di cannoni, ma vedendo ciò il Pezza prese quartiere poco distante da loro.
La mattina delli due di febbraro giorno della Madonna Nostra Signora, si trovò un prete il quale disse figlioli sentiamoci la Messa, che la Madonna ci faccia portare vittoria in questo giorno, per poter superare l’infame nemico. Al che il Pezza per non [f. 10] contradire disse a suoi sentiamola, ma per celebrare la Messa non si trovava pronto il calice, nè tampoco l’ostia nella Chiesa, tutto si stava cercando sin anche le candele per pigliar tempo, acciò li Francesi l’avessero colti nella Chiesa. Dopo tanto tempo si disse la Messa, si voltò il sacerdote e disse diciamo le litanie alla Madonna; allora lui disse non serve dir litanie dobbiamo andare al nostro destino, mentre stavano uscendo dalla Chiesa s’intese gridare all’armi, all’armi che si accostava il nemico, come in fatti lo era; ritrovandosi la sua gente così all’improvviso si sbaragliarono ponendosi tutti a scappare, e lui restò con soli cinque uomini, trattenendo li Francesi circa due ore colla morte di 83 individui fra quali erano 30 uffiziali francesi; vedendo poi che da Traetto usciva altra forza li convenne fuggire per salvare la propria vita.
Il giorno seguente tornò con pochi uomini nella strada dove quelli passavano imboscandosi nel loro passaggio attaccando un vivo foco colla morte di 50 Francesi, soldati di Cavalleria, dove presero 14 carri di
[f. 11] prigiotti, un altro carico di apparamenti di Chiesa; il giorno dopo prendendo cammino verso Traetto per attacar l’inimico dove riceverono più di 600 scoppettate per cui la sia gente tutta l’abbandonarono, ma nulla esso curando ostinatamene li prese 19 vacche, che trasportava avanti un villano verso Traeto; alla fine vedendo che la sua gente voleva lasciarlo solo prese viaggio ed andiede a trovar la sua famiglia, per vedere se erano vivi o moti in Itri.
Dopo che restò con soli 27 uomini, e sempre facendo imboscate per non far passare anima vivente, che tanto le carrozze del nemico quanto i soldati dovevano morire, dopo fatto un attacco subito: ritirava alle montagne, ma non sempre nell’istesso luogo, ma in diverse parti, conforme venivano le spie, che dicevano dove passar dovevano i Francesi, là subito s’imboscava. Un giorno venne un aviso che passar dovevano i carri coverti che Chiambionetti portavi lui subito si portò ad aspettarli, e dopo che vennero detti carri accompagnati da 70 uomini di Cavalleria, quali furono tutti massacrati e presi detti carri, credeva esser danari, o argenteria, ma in un solo erano danari, e negl ’ altri tutti vestuarii della truppa, ma preso detto
[f. 12] bottino con i suoi si ritirò col suo destino.
Di nuovo se li scrisse da Castelforte che si fusse là portato con dirli che si erano radunati circa 4.000 uomini, allora non tardò subito andiede, perchè sapeva che ogni giorno venivano i Francesi ad inquietare, che un giorno avevano portato un mortaro per le bombe cannoni dicendo voler distruggere detto paese, ma ogni volta che son venuti erano respinti colla morte di molti loro individui, che tra morti e feriti furono circa 300 che l’imbarcarono e mandarono in Gaeta, mentre una persona suo strettissimo amico quanto si faceva in Gaeta tutto li avisava, e sempre tentavano di distruggere la sua gente, nè li riuscì, che anzi un giorno li prese sin’ anche li cannoni, e furono buttati nel Garigliano per non poterli portare nel Paese dove stava per cagion delle montagne. Aveva lui ben’ anche in detto Castelforte quattro pezzi di cannoni di legno che pochi colpi potevano sparare, che servivano per dar terrore al nemico, per cui dopo li soldati Polacchi e Francesi
[f. 13] quando erano comandati per Castelforte gli pigliava il diavolo, che sempre erano battuti valorosamente, che furono costretti abbandonar quel luogo per non essere tutti massacrati.
Vedendo il Pezza che non venivano più a tentare il Paese, risolse della sua gente formar due colonne, una dovea batter Traetto, Garigliano, Mola e Castellone, e l’altra Itri e Fondi per poi uniti batter la piazza di Gaeta, ed in fatti ha combattuto colli Francesi a Fondi ed Itri colla colonna da lui comandata, de quali porzione furono morti, ed altri perseguitati per fìn’ allo Stato Romano; la colonna di Traetto la fece comandare da un fuciliero di montagna chiamato D. Antonio Guisa, ma nel mentre si battè colla città ebbe la disgrazia il detto comandante di perire, bensì fu presa Traetto, ma tutta la gente si scoraggi, per non aver chi li comandava, perciò non eseguì quanto il Pezza l’ aveva ordinato. Mentre lui si portava in Gaeta, li giunse un corriero dicendo che la
[f. 14] gente se nera andata vedendo la morte del detto Guisa; in quell’istante giunse una colonna innumerabile del nemico, e si ripigliò Traetto, dove massacrarono circa 400 uomini e donne, e ci sono incappati circa 60 della sua truppa, e poi si sono incamminati verso Castelforte. Ciò lui sentendo si portò subito a dar ajuto a quella povera gente, ma giunto che fu in quelle vicinanze intese che stavano per entrare in detto paese, e per mancanza di munizioni si dovea rendere, ma bensì morireno circa cinquecento cinquanta Francesi4.
Avendo il Pezza questo inteso disse che non dubitassero che pensava lui per la munizione, ed avendo inteso che era giunta in Procida l’armata inglese, e di fatti trovò una barca, e si portò da loro in Procida per aver munizione; appena arrivato fece passare imbasciata al Comandante Dobrits, con dirli che era colà giunto Fra’
[f. 15] Diavolo, che voleva comunicarli alcune cose. Appena intese il Comandante il suo sopranome, subito lo fece salire a bordo, e lo ricevè benignamente, dopo un lungo discorso li offrì qualunque danaro hi volesse, a cui rispose che danaro non li necessitava, che n’avea bastante, solo era venuto a pregarlo per armi e munizione di guai, che di questo ne avea bisogno. Allora il Comandante l’inviò col suo interprete Cianchi, e comandò al Governadore, allora D. Michele de Curtis col quale anche lui parlò, e li fece l’istessa offerta di danari, e lui rispose l’istesso, al che prontamente li diedero due cannoni, e tutta la necessaria munizione di guerra.
Ritornato che fu al suo destino, ritrovò solo 20 uomini al Garigliano, dove sbarcò li cannoni, e pensava portarli in Traetto, che aveva inteso colà dovevan venire circa 200 Francesi, pensando tra se stesso se il nemico viene si piglierà i cannoni, e noi ci convien fuggire; dopo verso un ora di notte fece attaccare li cannoni, e portare nella strada vicina Scavora [sic]; e là situarono
[f. 16] li cannoni, pensando che se loro vengono non possano passare per altro luogo ma solo per qua, ed allora si farà quanto si può. Ma buona sorte si fu che nessuno si vidde al far del giorno, e subito vennero circa 300 uomini delli suoi, e così si son portati sopra Maranola la quale è situata sopra una montagna, che li cannoni si dovettero portare a schiena di cavalli, dove si formò un quartiere di ritirata, aspettando per restringere tutta la gente che in termine di dieci giorni radunò circa 1.000 uomini, e 700 stavano in Itri comandati da suoi fratelli che impedivano il passo per il mare e per terra alli corrieri, e non lasciavano passare nessuno, che non fosse visitato; come passavano i corrieri, così erano arrestati e prese le balice, con lettere, che si trovavano, ed all’istante erano spediti per Procida per farli ricapita quanto prima nelle mani di Sua Maestà nostro Sovrano.
[F. 17] Di più di questo ha avuto due corrispondenti in Gaeta che erano provisionati, che non tralasciavano giornata per farlo inteso di quanto si faceva dal nemico per essere più sicuro ad affrontarlo; oltre di questo i sudetti fecero una gran provisione di carne salata col suo consenso, in maniera che s’inverminì, e tutto dovettero buttare in mare, che questo ancora fece rendere prima di due mesi la Piazza perchè li mancò la provisione, e sentendo che i Francesi volevano sortire da detta Piazza di Gaeta, subito si sono imboscati che il giorno 10 maggio fecero un gran massacro, che tra morti e feriti furono più di 160, ed il restante perseguitarono fino a Gaeta.
Pochi giorni dopo che fu il giorno di S. Marciano fecero una imboscata al ponte di Castellone che passavano 200 Francesi, tanto furono battuti che nessuno potè scappare per portare la notizia in Gaeta, che tutti furono massacrati, dopo di ciò ognuno se n’ andiede al suo destino, rimanendo lui solo con solo 40 uomini in Mola. Intanto vennero due trabacoli per mare, menando cannonate da per tutto, e neppure loro hanno
[f. 18] risparmiato di sparare. Nel tempo che si faceva questo foco, ecco che se ne vengono 700 Francesi colla Cavalleria davanti, alla vista de quali il Pezza con [un] suo compagno sparò, e n’uccise due, dove si fece un gran fuoco, e li trabacoli da mare si accostavano, sparando cannonate e mitragliate; lui intanto ciò vedendo con i suoi compagni se n’andiedero al loro destino, perchè erano pochi, e non potevano far resistenza, che se i Francesi volevano venire sopra Maranola l’aspettavano, dove stava lui colla sua colonna; ma non si sono rischiati di andare, e subito hanno saccheggiato Mola e Castellone, e si sono ritirati in Gaeta.
Dopo giorni due venne un corriere con dirli che in Mola son giunti 30 Francesi con due barche a macinare il grano, allora lui prese 100 uomini, e si portò colà, e massacrarono circa tutti [i] 30 Francesi, e presa tutta la farina la portarono al loro luogo. A capo di pochi giorni calò a Castellone con tutta la sua gente, dove formò quartiere, e poi giunse il suo fratello D. Giuseppe Antonio con altra gente da Itri, e due cannoni, i quali
[f. 19] furono conquistati dal medesimo. Dopo si sono accostati verso Gaeta per conquistar detta Piazza, al che immediatamente si portò il Pezza per parlar colli Inglesi, ed andiede a bordo di un brigantino, che poco distante stava; in questo momento sortirono i Francesi dalla Piazza colli cannoni e colla Cavalleria, attaccarono il foco, che durò circa due ore, e che dalli nostri hanno pigliato due cannoni, lo che accadde per non essere presente il Pezza, che non potendo arrivare prima, per il contrario tempo, ma alla fine arrivò lui, e ricuperò un barile di munizione e molte armi di diversa qualità, e di bel nuovo si situò a Castellone, e non fece passare neppure la paglia per i cavalli.
Dove stiede fin tanto che sono arrivate due galeotte, quattro bombardiere e quattro lanzoni da Procida, e così si son portati di nuovo all’assedio che fecero sì stretto, che neppure poteano sortire per prendersi un poco di verdure dalli giardini sotto la fortezza, e non passava giorno che non avessero tentato di sortire contro di loro, ma sempre colla perdita di più Francesi, che sempre vergognosamente si sono ritirati. Nel[le] loro sortire che facevano erano tre colonne, una veniva di fronte, l’altra per la montagna, e la terza andava a saccheggiare il borgo, ed il Pezza gli perseguitava che doveano lasciare quanto aveano fatto; ma di ciò
[f. 20] sdegnato, ben tre volte li avisò che fussero l’abitanti usciti dal borgo, e levato ogni cosa per non dare modo al nemico che col saccheggio si fusse rinforzato. Alla fine alle sue voci non volendo ubbedire, colla sciabola alla mano gli scacciò, dicendo a suoi scarpitti che non avessero portato riguardo a nessuno, qual cosa fu di molto danno a quelli del borgo, ma dovette farlo per levare ogni forza al nemico, e per farli più presto renderli andava di nascosto a dar fuoco travestito in più forme alla munizione della polvere che avevano sopra la fortezza, che li riuscì una volta mandare in fumo da 50 artiglieri, per cui da quel giorno in poi i Francesi furono privi dell’artiglieri sopra la fortezza.
Altra volta con 20 uomini sciolti andiede a tagliare li capi delli pozzi per tutti li giardini che bagnavano le verdure, e così li riuscì disseccarle tutte acciò non avessero avuto neppure erba da mantenersi i suoi nemici; un giorno si avanzò sotto le mura con un suo compagno, avendo veduto che avanti la porta di Gaeta stava un uffìziale francese con pippa in bocca e libro in mano seduto ad una sedia nell’erba con un soldato di guardia avanzata di sua difesa; accostatisi a tiro di scoppo [sic], lui vestito da scarpitto colla
[f. 21] carobina [sic] e ’l suo compagno da uffiziale colla sciabola, il quale ebbe un archibusciata, ma non lo colpì; allora lui disse voglio veder se il colpo della mia carobina lo sgarra, ciò dicendo sparò, al che si vidde in un punto andar su sopra l’uffìziale, il libro, la sedia la pippa, ed il soldato se la scappò, e così li riuscì guadagnar quella pippa che lui da lontano si aveva prefisso pigliarsi, per cui a questo cimento si espose.
Di più due suoi ciacchetti continuamente insultavano sotto le mura i Francesi, dicendo loro ha [sic] striga galline, mangia lardo uscite a combattere, uno de quali con un colpo di cannonata fu spezzato per mezzo per troppo azzaldarsi [sic]; questo saputo il Pezza si rammaricò da una parte ma si contentò, perchè questo ne avea ammazzato più degl’altri, mentre quando sortivano i Francesi di notte a rubar verdure e frutta ne giardini, il ragazzo sotto le foglie folte ed alte di cocozze nascosto li ammazzava, e lui colle proprie mani lo seppellì in una Chiesa vicina in un vaso di pietra dove si poneva l’acqua santa per non esserci ivi luogo di sepoltura, e di più li bruggiò da circa mille e duecento tomola di grano ammetati avanti le mura, per non darli modo da vivere.
[f. 22] I Francesi un giorno vollero armistizio dal sudetto Pezza; diede pranzo a tutti l’ufficiali che si mangiarono come tanti lupi molti prigiotti e frutta, oltre di molto pane e vino e mezzo barile di acquavite che aveva fatto [venire] a posta per incoragirsi con i suoi nell’attacchi. Per cui li dissero quanto siete velenoso in battaglia tanto siete amabile nella pace. Per cui obligati invitarono anche lui nella piazza a pranzo, e lui rispose non poterla [sic] servire, mentre non poteva muoversi una pedata senza ordine del Sovrano; ma almeno li dissero si fusse trattenuto un ora per avere il piacere di farne il ritratto, nè ce l’accordò, sicché licenziati si ritirarono nella piazza, e disperando si dicevano abbiamo a combattere con tutte le corone, ed anche con un Diavolo in terra.
Una mattina fece un entrata falza a vista del nemico con 500 uomini, carri ed altri equipaggi con cassa battente che i Francesi si credevano essere altra truppa di linea venuta, per cui intimoriti non sortivano più dalla fortezza, ma pure un giorno vollero tentare alla disperata, ed il fatto si fu che mai non successe tanto di loro massacro quanto quella mattina da circa più di 200, e ne furono appiccati per i macelli e per gl’albori come tanti porci, che il Comandante di detta piazza si mandò a lagnate con dire che queste non erano azioni di guerra, e da lui li fu risposto prontamente che non l’avrebbe fatto, se non l’avesse imparato da loro, i quali poco prima aveano trovato tredeci [sic] de suoi e l’aveano fatti a pezzi a colpi di accetta, dicendo loro fate de nostri quello che volete, che se venite nelle nostre mani faremo quel che ci piace.
Dopo questo fatto d’ armi non s’ intesero fin tanto non si fece
[f. 23] la capitolazione5; allora gli disse il Comandante francese che [se] per giorni tre non si fusse capitolato si doveva rendere per fame giacché nel mentre era durato l’assedio si cibavano di solo pane e lardo ed acqua, consistente assegnato per ciascheduno [era] mezza libra di pane e due oncie di lardo, e che un piede d’insalata si pagava un carlino; dopo che si sono imbarcati il Comandante li disse che fra mesi sei si sarebbero veduti di bel nuovo, a cui il Pezza rispose spero dal Signore di vederci in Parigi prima di cinque mesi.
Dopo presa la consegna di detta piazza si portò in Napoli alle prime [sic] di agosto a bordo da Sua Maestà giusto quel giorno che sarpò [sic] la sera da Napoli per Palermo, che dopo gran piacere di Sua Maestà in averlo la prima volta veduto con quei Signori che li facevano corono [sic] encomiandolo e lodandolo della sua brava condotta e fedeltà se li domandò sera casato, o soluto, volendolo premiare con superbissime e nobilissime nozze, a cui lui rispose d’ aver dato parola6 ad una giovine, nè potea mancarla, essendo sempre stato il suo carattere di un uomo fedele; di che dal Re e da quei Signori ne fu lodato come uomo fedele ed onorato, poi li disse che fosse
[f. 24] partito per la conquista di Roma, e concertato prima col Cardinal Ruffo.
Come di fatto a 23 di agosto da Castellone la mattina di venerdì licenziatosi dalla moglie e suoi parenti dopo otto giorni di matrimonio partì, con 3.000 uomini tra scarpitti, Fucilieri di montagna ed un battaglione di campagna e treno di artiglieria, e li furono consegnati due cannoni e tutto il bisognevole da guerra, con tutta la munizione e ducati 4.000 che arrivato in Terracina li consumò per la paga de soldati, e subito dovette cercar danaro per mantenimento della truppa, e prese come fece molta robba de Giacobini dalle mani de consegnatarii con suoi ricivi; avendo inteso che i Francesi aveano disfatta la colonna di un certo calabrese chiamato Rodio in Frascati di Roma, quale colonna per aver dato il sacco ed incauti nel dividersi e vendersi la robba in Marino, fu assalito da i Francesi colla perdita di molti [e] fuggì fin dentro l’ Abbruzzo, al che lui subito si avanzò e si portò in Velletri
[f. 25] da dove promulgò proclami con affiggerli dentro le mura di Roma di notte nascostamente del tenore seguente, cioè7[:]
Ferdinando IV, per la Dio grazia Re delle Due Sicilie, di Gerusalemme ecc., Infante di Spagna, Duca di Parma e Piacenza, Castro, Gran Principe Ereditario di Toscana. Fabrizio Cardinal Ruffo Vicario Generale del Regno di Napoli. D. Michele Pezza Comandante e Generale della Regia divisione che forma l’ala sinistra dell’Esercito di S.M. che marcia verso Roma.
Dopo le paterne premure che si è dato S. M. di riacquistare quella porzione del suo Regno di Napoli, che per disegno dell’ insensato Giacobinismo era stata sovvertita ed invasa da i Francesi, onde riportare a suoi buoni ed amati sudditi la pace, la giustizia ed il buon ordine originario della sola onestà cristiana, per il di cui fine
[f. 26] appunto il Creatore dell’Universo ha dato i Re alle Nazioni, si è pure la Maestà Sua determinato di far inoltrare le sue vittoriose truppe in questo Stato Romano, richiamato dalla premura di tranquillizare anche questi Popoli suoi limitrofi e salvare la S. Chiesa già illanguidita per assicurar la pace dell’Italia, nella quale va ineressata. E siccome per li gloriosi ed interessanti oggetti è intenzione della Maestà Sua che vi concorra più la ragione propria del [sic] uomo da bene, che la forza imponente ed estesa delle sue armi, e specialmente di voi Popolo Romano, che solo rimanete ancora sotto di quella violenza che vi produce un governo tumultuante destituito di dritto, di leggi, e principii: siete perciò con il presente editto chiamato dal pietoso cuore della
[f. 27] Maestà Sua ad interessarvi in questa santa, giusta e devota causa, con promettere che sebene siete concorsi colle armi alla rovinosa ed abominevole sacriliga Democrazia, che vi andava a distaccare dal Vangelo e dalla vostra stessa felicità ne rimarrete non solo perdonati, subito che deporrete le armi, e verrete a presentarvi a me, o ad altro Comandante delle Regie Truppe sia generale o locale o dei suoi Alleati, ma ben’anche sarete premiati, preferiti e ricombenzati; persuasi come dovete essere che la sola benignità sovrana si è quella propria del suo Reale animo si e quella che vi dispensa questa indulgenza per somministrarvi un mezzo per farvi salvi ed immuni; poi che se mai sarete trovati colle armi alla mano, allora verrete trattati come veri ribbelli
[f. 28] figli della perfidia e dell’errore, e soffrirete soli e non mai altri il saccheggio stato vietato alle Reali Truppe.
Dato in questo Quartiere di Velletri 9 settembre 1799.
D. Michele Pezza Fra Diavolo.
Di là poi passò in Albano, e formò quartiere quattordeci miglia distante da Roma, e prese tutti i migliori posti dividendo la sua truppa per poter battere l’infame nemico, né da quel punto s’ intese più perdita dell’armi napolitane, non tralasciando giorno e notte di andare con 100 uomini alle porte di Roma, e dentro la città di notte per regolar le sue mire, ma non si son rischiati mai i Francesi e Patriotti uscir fuori, e che se lui avesse avuto un altro migliaio di persone avrebbe pigliato Roma per assalto, ma anche per andar di concerto con Rodio non li riuscì, come si rileva da una lettera da lui scritta al 31 agosto
[f. 29] da lui scritta e fatta in Velletri per Napoli al suo strettissimo amico che il pensiere [aveva] avuto e l’impegno di queste notizie raccogliere, e formarne questo scritto.
In quell’istante giunse il generale Boccard in Grotta Ferrata con 3.000 uomini di linea con artiglieria e cavalleria, e li scrisse lettera che si fusse portato colà, dove subito andiede, e volle saper da lui lo stato di Roma, lo che da lui li fu partecipato in tutto, come ancora li fu detto che quando voleva assaltar Roma era pronto, mentre anche la fortezza di Fiumicino e quella di S. Michele l’aveva già presa per assalto con 13 uomini ed aveva fatto otto prigionieri, ed ora non facea passar persona alcuna per detto fiume per cui non vi è chi li faccia ostacolo. Dopo giorni tre lo mandò di nuovo a chiamare, e li disse che si è fatto armistizio con dirli che non andasse più verso Roma, il seguente giorno lo mandò di nuovo a chiamare, e li disse che l’ avesse scelto 1.000 uomini i migliori che aveva, e che avesse avanzato alla volta di Roma, e che si era già fatta la capitolazione
[f. 30] e che si avesse presa consegna delle tre Porte, cioè porta S. Giovanni, porta Maggiore e porta S. Paolo, e fusse andato senza artiglieria e cavalleria, e subito fu eseguito.
Di fatti la notte di S. Michele compleando [sic] del suo nome, 29 settembre 1799, per strade disperse di campagne a gran stento, e passare a guazio [sic] una fiumara, sempre temendo di tradimento si presentò alla porta di S. Giovanni con 600 uomini de suoi, dicendo viva il Re, li fu risposto avanzi, si prese la consegna della artiglieria francese per mano de suoi artiglieri dicendo a i suoi non dubitate, che se moro io morirete voi, e così avanzando si trovarono al far del giorno dentro la porta di Roma, il mercoledì appresso si prese il Castel S. Angelo.
Mentre stava in dette Porte ebbe la disgrazia di farsi male ad un piede per causa del cavallo, e mandò a dire al Generale Boccardi che volea andar dentro Roma per guarirsi, perchè colà stava in aria cattiva; il sopraddetto Generale gli disse che avesse [f. 31] sofferto altri giorni, che quando lui stava alle porte, esso era sicuro nella Città. Nel mentre stava lui alla porta di S. Giovanni, venne una donna e li consegnò un anello, che era della Maestà della Reina [sic], a cui lui subito fece la ricevuta; dopo d’aver ciò saputo il Generale Boccardi li mandò a chieder l’anello, ma da lui li fu risposto che si volea fare un preggio di consegnarlo colle proprie mani alla Maestà della Regina. Dopo quattro giorni gli mandò ordine che avesse acquartierato fuori le Porte la sua gente colla proibizione che nessuno potesse entrar nella Città (per cui non dovette far poco per frenare la sua gente che si lagnavano [sic], che dopo aver rischiato la vita per qualche tradimento a prender le Porte li era proibito di veder Roma) e lui gli rispose sarebbe meglio riunir tutta la gente per ogni cautela, e per esser pronto ad ogni cenno e comando del sudetto Generale; li fu tutto accordato e radunò tutta la gente in Albano con farli capire essere aria migliore.
A capo di pochi giorni si mandò a prendere 100 uomini di Cavalleria de suoi
[f. 32] che venivano comandati da un certo D. Antonio Caprara; giunti che furono in Roma gli chiamò per passar revista, ma il fatto si fu che furono dissarmati [sic] e levati i cavalli, e li fu detto chi di essi volesse servire da soldato, ma nessuno si offerì, ed il comandante Caprara li condusse presi nel Castel S. Angelo. Dopo pochi altri giorni si mandò a pigliare tutta la sua Artiglieria, cioè a 10 ottobre 1799, ed ancora con questi fece l’istesso Cioè che il Comandante di detta Artiglieria avesse servito da Sergente nell’istessa; vedendo questo altri soldati di Cavalleria tutti si disertarono per non vedersi togliere i cavalli e le armi, e poi li fece mancare il pre [sic], cioè la paga ai soldati, e li mantenne così per giorni 12. I quali vedendosi così trattati si disertarono la maggior parte, poi li scrisse lettera in nome di Naselli, che da Albano si fusse conferito in Roma, per dare conto della robba de Giacobbini, che lui aveva presi per mantenimento della truppa, che l’ avesse portato l’anello che lui teneva, e li mandò la patente da Colonnello, che
[f. 33] Sua Maestà si era benignata mandarli.
Mentre stava una mattina per portarsi in Roma, vennero in quell’istante mille e cinquecento uomini di fantaria [sic] e cavallaria, e portavano due pezzi di cannoni, ad ore 10 della notte si presentò da lui un Maggiore con una lettera che diceva che si fusse portato in Roma con una porzione di quella Cavalleria, siccome obbedì, mentre il resto de’ soldati arrestavano tutta la sua truppa per condurla in Roma. Quando fu alla metà della strada s’incontrò col generale Boccardi, che dimandò di nuovo l’anello (e lui rispose, la lingua batte, dove il dente duole) e l’intimò ancora l’arresto, come di fatti si fu; mentre stava nel Castel S. Angelo li portareno carcerati tutti i suoi soldati. Avendo lui ammirato questo indebito arresto scrisse al Generale Naselli per saper la causa del suo arresto, gli fu risposto che era per ordine di Boccardi, allora lui scrisse al sudetto, e li fu risposto che lo sapeva Naselli.
Allora ciò sentendo, e non potendo soffrire l’invettive de Giacobbini contro il [f. 34] Sovrano in mezzo a i quali l’avevano posto nel Castello, e l’oppressione de suoi, che con tanto zelo avevano difeso la Corona, li parse di bene fuggire dal Castello con un concettoso modo, e dalla porta di Roma in Itri 83 miglia in circa ci pose meno di ore 10, sotto un cielo che diluviava con crepar due cavalli, non ostante un rigoroso arresto per tutti li passi contro di lui.
Si portò in Palermo da Sua Maestà, ma dopo la terza volta che si era partito da Napoli per essere stato due volte respinto per il mare contrario, dove arrivato con acclamazione del popolo e [di] tutti i signori palermitani, che si affollavano per vederlo la sera con i lumi alla mano a 4 gennaro 1800. A far del giorno si presentò dagli amabilissimi Sovrani, che fu con grande applauso e festa ricevuto; al che lui presentò l’anello alla Maestà della Regina, la quale non solo li disse che se l’avesse goduto, perché preso in guerra in memoria della vittoria contro i Francesi, ma ben’anche si benignò donarli un altro anche superbo e prezioso, acciò si fusse ricordato sempre della sua Real Persona, con dirli che
[f. 35] questi regali si fanno a voi, come persona distinta, non già ad altri.
E che tanto fu l’onore che ebbe dai Sovrani, quanto da tutta la Reai Famiglia, che quante grazie li domandò, niente li fu negato, così ancora dal Capitan Generale Acton43, ed altri superiori, e da tutta la popolazione siciliana fu ricevuto distintamente, con essere il primo giorno obligato a mangiare in tavola di Nelson Ammiraglio inglese, e per lo spazio di due mesi da tutti i Consoli delle nazioni obligato a pranzo. La prima sera all’Opera fu ammirato con riguardar sempre la sua persona, per cui li convenne non andarci più; più volte al festino publico da Sua Maestà fu distinto, ed al baciamano, ed altre funzioni publiche, fu dalla Regina a chiare voci, da altri signori distinto, e complimentato dicendo così meritano essere trattati da [i] Sovrani i fedeli vassalli, e zelanti veri dell’onor di Dio, e del loro Re.
Finis
1 Archives Nationales, Paris, 381 AP4, dossier 4, Ministère de la Police générale 1806-1808, Pièces diverses. Il frontespizio reca la seguente soprascritta in francese e con caligrafia diversa: «Faits historiques des campagnes de Fra Diavolo rédigés par lui même, et trouvé dans ses papyers lors du sequestre de ses bons. Julliet 1806». La traduzione fedele della scritta è: . Le rare modifiche al testo del manoscritto, atte a facilitare la lettura, hanno interessato alcuni capoversi e qualche punteggiatura: alcuni periodi particolarmente lunghi e ricchi di subordinate sono stati spezzati, col sostituire il punto al punto e virgola. Tra parentesi quadre è indicato il numero dei fogli del manoscritto, che nell’originale non reca nessuna numerazione.
2 Questo periodo è in parte cancellato e sostituito a margine da frasi similari, ma scritte con altra calligrafia e grammaticalmente scorrette e dialettali: «Avendo indeso D. Michele Pezza alias Fra diavolo che li nimici Frangesi si noldravano nel regno subito comingiò affare unione».
3 A margine è stato aggiunto con calligrafia diversa: «perchè era fatto l’armistizio», con riferimento all’armistizio stipulato a Sparanise il 12 gennaio 1799.
4 Innanzi vi è scritto mille e cinquecento, ma è cancellato.
5 Nota a margine: «che segui il giorno de’ 4 agosto», con riferimento però, evidentemente, all’ingresso degli anglo-borbonici nella piazza, perché la capitolazione fu stipulata il 30 luglio.
6 Postilla a margine: «privata».
7 Un esemplare a stampa del proclama, conservato dalla famiglia Pezza, fu ripr¬dotto da B. Amante..