Fin dai tempi più remoti l’Uomo, ma anche una comunità, dovendo rappresentare graficamente le proprie migliori qualità, come: la forza, l’arguzia, il coraggio, la maestà, ha spesso utilizzato immagini raffiguranti taluni animali reali, ancorché fantastici, che potessero essere immediatamente e da chiunque, identificati per quella o quelle qualità rivendicate e che, con siffatta immagine, fossero facilmente evocabili.
Non solo scolpite nella pietra, o riprodotte nelle insegne al seguito degli eserciti, od ancora disegnate sugli scudi araldici, tali raffigurazioni sono anche riprodotte sulle monete ed è di queste che desidero parlare, giacché è proprio grazie alle monete, più che da altre situazioni, che tali immagini sono giunte a noi.
L’aquila, il leone, il toro, ma anche il grifone ed il cavallo alato, sono solo alcuni degli esempi che troviamo incisi sulle monete classiche; spesso il loro richiamo è mitologico e ad ogni animale, reale o fantastico che sia, corrisponde una divinità; ne è una testimonianza lo statere, moneta che ha ospitato una infinità di immagini mitologiche, come il toro o il cavallo alato.
Altre volte, come ad esempio nelle monete romane, troviamo spesso incisa l’aquila che rappresenta l’intera legione, ad evocare la sua forza e la fedeltà verso l’imperatore, oppure l’elefante, come si vede sul denario coniato sotto Giulio Cesare, a rappresentare la forza irresistibile del suo esercito che calpesta il nemico rappresentato dal serpente (o dal corno celtico, come ultimamente si propende a considerarlo).
Con il Medioevo e con il grande impulso che ha avuto la scienza araldica in questo periodo, tali rappresentazioni si sono moltiplicate e col tempo sono diventate sempre più sofisticate.
IL LEONE E SAN MARCO
Il leone è tra gli animali più rappresentati sulle monete; stante in maestà, andante o rampante; coronato o non, portante i simboli regali e/o imperiali come lo scettro e il globo crucifero, oppure semplicemente un vessillo, lo troviamo in innumerevoli monetazioni, anche contemporanee.
E’ appena il caso di citare gli euro coniati dalla Finlandia, dove su molti tipi viene rappresentato il leone simbolo nazionale, rampante, coronato, che calpesta una scimitarra e tiene una spada nella mano umana destra.
Per noi, oggi, è quasi scontato identificare l’Apostolo San Marco e l’immagine del leone alato che lo rappresenta, con la Repubblica di Venezia, ma non è sempre stato così.
All’origine, quando Venezia era un piccolo borgo di pescatori sparso tra le isole Realtine, il Patrono al quale si era dedicata era San Teodoro; il culto di questo Santo, originario presumibilmente della Cilicia o dell’Armenia, fu diffuso a Venezia nel VI secolo, pare ad opera dell’esarca Narsete e gli venne dedicata una piccola chiesa, edificata nell’area che oggi occupa la basilica di San Marco.
Il suo culto si mantenne fino all’828, quando a Venezia arrivarono le spoglie di San Marco Evangelista, trafugate da due mercanti veneziani ad Alessandria d’Egitto.
La tradizione vuole che questi due mercanti: Buono da Malamocco e Rustico da Torcello, una volta recuperato il corpo del Santo per poterlo far uscire da Alessandria, dove era conservato, e senza incorrere nei severi controlli effettuati dai soldati musulmani a guardia delle porte della città, lo misero in una gerla e lo coprirono con pezzi di carne di maiale; giacché la carne di maiale è assolutamente considerata impura e vietata dal Corano, i soldati si guardarono bene dal solo toccarla e rimuoverla per effettuare un controllo accurato del contenuto della gerla e così i nostri mercanti riuscirono nell’intento. Questo è ciò che ci dice la tradizione, ma c’è forse un motivo molto più prosaico, del quale va tenuta grande considerazione?
Nell’anno precedente, l’827, nella città di Mantova, i vescovi del regnum italico residenti in terraferma e legati al potere austro-germanico e quelli antagonisti, legati al potere bizantino-venetico, si riunirono in un sinodo per affrontare uno spinoso problema; chi avrebbe dovuto reggere il Patriarcato di Aquileia, la stessa città di Aquileia o la città di Grado?
In verità l’antagonismo tra le due città, entrambe sedi patriarcali, era nato già al tempo del primo medioevo; Aquileia, già sede patriarcale al tempo della X Regio Venetia et Histria, aveva la sfortuna di trovarsi in una posizione territoriale troppo esposta e vulnerabile rispetto all’isola di Grado che era cinta dalla laguna; prima le invasioni barbariche, poi le lotte con i Longobardi, infine l’adesione di alcuni suoi esponenti alla corrente scismatica “tricapitolina”, fecero si che in ognuna di queste occasioni gli aquileiesi si rifugiassero a Grado, trasformando il luogo da rifugio temporaneo a baluardo difensivo stabile, un vero “castrum” con palazzi, duomo e battistero.
Grado assunse così il ruolo di “ancora di salvezza” del patriarcato di Aquileia, fino al punto che il patriarcato gradese fu riconosciuto equivalente a quello aquileiese. Una volta ritrovata da parte di Aquileia la tranquillità, cominciarono le controversie, le rivalità e le lotte nei confronti di Grado, per riacquisire il suo primato ed azzerare quello antagonista.
Chiaramente Grado non aveva nessuna intenzione di retrocedere; non era forse stato merito suo se il patriarcato di Aquileia non era morto al tempo delle invasioni e delle lotte?
Fu deciso quindi di indire il sinodo per dirimere la questione su chi doveva considerarsi legittimato ad avere la preminenza e rappresentare gli antichi diritti aquileiesi. Grado era supportata ovviamente da Venezia, mentre Aquileia, rappresentava gli interessi imperiali.
Il risultato era praticamente scontato e sfavorevole a Grado; il rischio di un verdetto ad essa avverso andava molto al di la di questioni teologiche o clerico-procedurali; c’era certamente in gioco una sottomissione spirituale che avrebbe pregiudicato a Grado la giurisdizione sull’Istria, mentre Venezia temeva soprattutto il rischio che da ciò derivasse anche il blocco delle sue aspirazioni commerciali e politiche.
Nell’828, mentre ancora a Mantova i vescovi discutevano esponendo ciascuno le proprie tesi, arrivavano in laguna le spoglie di San Marco, proprio le reliquie di colui che per tradizione era il grande fondatore della Chiesa aquileiese; questa mossa del tutto inattesa riuscì a gettare un po’ di scompiglio nel sinodo, poiché per tutte le genti venetiche, da ora in poi, Venezia sarebbe stata associata alle spoglie del Santo, garantendogli, “de facto”, un prestigio ineludibile e inalienabile.
San Marco era indiscutibilmente a Venezia, e di Venezia, tanto che il governo della città decideva l’immediato avvio della costruzione della basilica che avrebbe conservato i suoi resti mortali, proprio dove già si trovava la chiesa di San Teodoro, di fianco al palazzo del Doge, facendone la sua cappella dogale, libera “a servitute Sanctae Matris Ecclesiae”, cioè dalla servitù alla Santa Madre Chiesa.
Il sinodo di Mantova, nonostante ciò, attribuiva ad Aquileia il primato religioso sul Golfo di Venezia, ma Grado non soccombeva, anzi manteneva intatta la sua giurisdizione, consentendo così a Venezia di gestire in posizione equidistante e privilegiata la sua indipendenza sia dal potere della Chiesa di Roma, sia dal potere Imperial-Aquileiese.
San Teodoro doveva, in qualche misura, cedere la preminenza al nuovo Patrono, che così diventava simbolo dell’unità spirituale delle lagune ed elemento fondante dell’identità veneziana.
Non dobbiamo meravigliarci di ciò, ma in quell’epoca le reliquie erano un formidabile aggregatore sociale; non poteva che essere così anche in questo caso, soprattutto se consideriamo che di San Marco già si conosceva il suo apostolato tra le genti venetiche ed il fatto che fosse anche uno dei quattro Evangelisti, non poteva che considerarsi un valore aggiunto.
PERCHÉ IL LEONE
Riprendendo le profezie di Ezechiele, nella Bibbia, Apocalisse 4,7, si cita testualmente: “Il primo vivente era simile a un leone, il secondo essere vivente aveva l’aspetto di un vitello, il terzo vivente aveva l’aspetto d’uomo, il quarto vivente era simile a un’aquila mentre vola; i quattro esseri viventi hanno ciascuno sei ali, intorno e dentro sono costellati di occhi”.
San Girolamo, nel IV secolo, argomentò che i quattro esseri viventi, si potevano associare ai quattro Evangelisti; e così fu, a ciascuno degli Evangelisti venne attribuita una delle suddette raffigurazioni; a S. Matteo venne associato l’angelo (l’uomo), a S. Luca il bue, a S. Giovanni l’aquila e a S. Marco il leone.
Il leone sta a San Marco, proprio perché nel Suo Vangelo si racconta del S. Giovanni Battista (spesso raffigurato con indosso una pelle di leone) e della sua voce che, nel deserto, “si eleva simile a ruggito”, preannunciando agli uomini la venuta del Cristo; “Ego sum vox clamantis in deserto, parate viam Domini” (Io sono la voce che chiama nel deserto, preparate la via del Signore).
Questa è solamente una delle varie ipotesi ed interpretazioni fatte, diciamo che è quella che per tradizione ci è stata tramandata ed ha avuto più credito.
Nella tipica raffigurazione, il leone alato veneziano tiene tra le zampe anteriori il libro aperto con la scritta: “Pax tibi Marce Evangelista meus”, riprendendo così l’antichissima tradizione che vuole S. Marco, naufrago nelle lagune durante il suo apostolato nelle terre venetiche, avvicinato da un angelo con le sembianze di un leone alato, apostrofarlo con la frase: “Pax tibi Marce Evangelista meus. Hic requiescet corpus tuum” (Pace a te Marco, mio Evangelista. Qui riposerà il tuo corpo).
Frase che impegnò (e giustificò) i veneziani nel recupero delle spoglie del Santo da Alessandria per portarle a Venezia.
Da allora, in tutte le piazze principali delle città del dominio, grandi o piccole, sulla terra ferma o nelle isole, anche le più lontane, alla loro presa di possesso da parte della Repubblica, veniva innalzata la colonna con in cima il leone di San Marco, tanto che i veneziani venivano anche soprannominati i “pianta leoni”.
Come evidenziato da Alvise Zorzi in: “San Marco per sempre” – Le Scie Mondadori 1998, con la fine della Serenissima, nel 1797, se n’è visto un’ecatombe; innumerevoli sono stati i leoni marciani posti sulle colonne, sulle facciate dei palazzi dei rettori o a guardia delle porte poste nelle mura di cinta delle città, distrutti o scalpellinati dalle soldatesche francesi e dalle zelanti milizie delle municipalità giacobine. I turchi, più civili, non si sono sognati di fare altrettanto a quelli scolpiti nelle grandiose fortezze veneziane in Grecia.
IL LEONE – IDENTITA’ DELLA “SERENISSIMA”
l’iconografia sulle monete
Non sappiamo con certezza il periodo nel quale il leone di San Marco sia diventato l’emblema della Repubblica di Venezia.
Solitamente è sulle bandiere che viene riportato l’emblema di uno Stato, ma nessuna di queste, che fosse stata usata per terra o per mare in quei primi secoli di vita della Repubblica veneziana, è giunta a noi; possiamo solamente rifarci ai testi che riportano situazioni nelle quali si parla del vessillo veneziano; scritti che, spesso, non sono coevi delle situazioni riportate, ma racconti di vicende tramandate fino ad allora, magari oralmente.
Questa mancanza di certezza deriva anche dal fatto che, stranamente, Venezia non pensò di codificare a quel tempo le insegne che dovevano rappresentarla.
Jacopo da Varazze indica che il leone venne assunto a simbolo della Repubblica tra il IV e l’VII secolo; così scrive Giovanni Diacono nel X secolo nella “Historia Lombardica seu Legenda sanctorum”, ma ciò lascia alquanto perplessi.
Si pensa che prima dell’anno 1000 il vessillo di Venezia dovesse essere costituito da un drappo azzurro con una croce d’oro; non molto dissimile, peraltro, dalla bandiera bizantina; la particolarità degna di nota sta nel colore azzurro; colore che fin dall’epoca romana, nei giochi circensi, era l’identificativo delle genti venetiche.
E’ molto probabile che la prima immagine successiva alla croce, raffigurante la Repubblica di Venezia, fosse l’effige di San Marco; possiamo leggere in “Storia Documentata di Venezia” Vol I di Samuele Romanin che, prima che partissero gli armati per la Terrasanta in occasione della I° crociata, venne tenuta all’interno della Basilica di San Marco una cerimonia; il patriarca di Grado consegnò al vescovo Contarini il vessillo con la croce e il Doge Vitale Michiel I° (…. – 1102) quello con l’insegna della Repubblica al figlio Giovanni che aveva il comando della spedizione.
Andrea Morosini in “L’imprese et Espeditioni di Terra Santa et l’Acquisto fatto dell’imperio di Costantinopoli dalla Serenissima Repubblica di Venetia” è ancora più preciso in proposito, ci dice che il Doge consegnò al figlio lo stendardo con l’effige di San Marco Protettore della Repubblica che portava la croce.
Anche nel racconto della presa di Bisanzio ad opera dei crociati avvenuta il 17 luglio 1203, sappiamo che i primi due valorosi che, attraverso le antenne delle navi, riuscirono a porre piede sulle mura della città, furono un francese (Seigneur d’Urboise) ed un veneziano (Pietro Alberti); il primo vi piantò la bandiera con la croce ed il secondo la bandiera di San Marco. Lo stesso Doge Enrico Dandolo (1192 – 1205), vecchio e quasi cieco, si fece condurre a terra tra i primi, preceduto dal gonfalone di San Marco.
E’ difficile ritenere che per San Marco intendessero il leone, avremmo lo stesso riscontro nelle monete e nelle bolle coeve. Non è ovviamente così.
Le bolle ufficiali dello Stato, che accompagnavano i documenti redatti dalla cancelleria ducale, ebbero sempre la medesima iconografia. Pur diventando, quest’ultima, più raffinata col passare del tempo, ha sempre riportato, al diritto, l’immagine di San Marco in piedi o seduto in cattedra, vestito con paramenti liturgici e spesso con la testa cinta dalla mitria vescovile; Questi tiene il vangelo stretto al petto con una mano, mentre con l’altra porge l’asta con l’orifiamma al Doge che gli sta accanto, anch’esso paludato dagli abiti che gli erano propri a seconda del periodo.
Di seguito una bolla di Ranieri Zeno (1253 – 1268) (fig. 1) e di Paquale Malipiero (1457 – 1462) (fig. 2)
Nelle prime bolle le immagini del doge e del Santo sono rappresentate in posizione frontale, ma successivamente vengono raffigurate di fianco, una di fronte all’altra, mentre il rovescio riporta la tipica formula giuridica che qualificava il Doge regnante con i titoli che gli spettavano.
Lo stesso vale per le monete; la prima moneta che vede rappresentato San Marco, seppur a mezzo busto e alquanto rozzamente, è il denaro coniato al tempo di Enrico III (IV) ed Enrico IV (V) 1056 – 1125. Di seguito uno dei vari tipi. (fig. 3).
D: croce con estremità bifide, accantonata da quattro globetti + ENRICVS IMPERA
R: busto di San Marco visto di fronte con aureola e vestimenta riccamente decorate, al collo il palio dei vescovi metropoliti e dei cardinali + S MARCVS VENECIA
Denaro, argento titolo 0,25 ca. peso gr. Da 0,83 a 0,41
Il conio di queste monetine in argento, di titolo e di peso calante nel tempo (da gr. 0,828 al titolo di 0,250 fino a gr. 0,4141 al titolo di 0,22) e con talune variazioni, sia nelle legende e sia nella forma della croce, continua fino alla elezione di Vitale Michiel II, Doge 38°, che svolse la sua dignità nel periodo 1156 – 1172 e primo Doge ad avere il suo nome inciso sulle monete veneziane.
Sotto il Doge Vitale Michiel II viene emessa una sola moneta: il denaro scodellato; anch’esso riporta al rovescio il busto di San Marco, sempre posto di fronte, e nimbato, e la stessa immagine viene anche riportata sul mezzo denaro o bianco, scodellato, moneta coniata sotto il dogato di Orio Malipiero, Doge 40° (1178 – 1192) e successivi dogi, fino ad Andrea Dandolo (1343 – 1354).
Con il dogato di Enrico Dandolo (1192 – 1205) viene coniato il Grosso, chiamato così proprio perché era una moneta in argento quasi puro (0,965) e di buon peso rispetto a quelle fino ad allora in circolazione, gr. 2,18.
In questa che segue possiamo ben vedere, al diritto, che San Marco ed il Doge impugnano l’asta della bandiera e su quest’ultima non c’è ancora il leone, ma la croce. (fig. 4)
D: x ° H ° DANDOL’ ° S ° M ° VENETI: S. Marco nimbato e barbato in piedi a destra e di fronte, tiene nella mano sinistra il Vangelo e con la destra porge il vessillo al Doge barbato e in piedi, a sinistra di fronte. Lungo l’asta, sotto il vessillo D // V // X Il Doge indossa un ricco manto gemmato e tiene con la mano sinistra un rotolo e con la destra regge il vessillo, la cui banderuola, con la croce, è volta a destra.
R: Il Cristo, con nimbo crociato, assiso in trono, col libro ornato di 5 perle, appoggiato sul ginocchio sinistro, ai lati della testa IC XC
Oltre a questa moneta, sotto il dogato di Enrico Dandolo, viene coniato anche il mezzo denaro o bianco, scodellato, nel medesimo tipo già emesso sotto Enrico III (IV) ed Enrico IV (V); monetina che viene anche successivamente coniata sotto i seguenti Dogi:
- Pietro Ziani ( 1205 – 1229);
- Jacopo Tiepolo (1229 – 1249);
- Marino Morosini (1249 – 1253);
- Ranieri Zeno (1253 – 1268);
- Lorenzo Tiepolo (1268 – 1275);
- Jacopo Contarini (1275 – 1280);
- Giovanni Dandolo (1280 – 1289).
Con Giovanni Dandolo vede la luce il Ducato; moneta in oro quasi puro, del peso di gr. 3,56 e che nelle intenzioni doveva rappresentare (come avvenne) la moneta ideale per le transazioni cospicue, per importanti pagamenti verso l’estero.
Anche questa moneta, però, non prevede l’inserimento di alcuna immagine che rappresenti il leone; nemmeno nello stendardo impugnato da San Marco e dal Doge. L’orifiamma riporta ancora la croce. (fig. 5).
e riprendono anche le emissioni del mezzo denaro o bianco, scodellato, nel medesimo tipo già emesso in precedenza, con il busto di San Marco, sotto i seguenti dogati:
- Pietro Gradenigo (1289 – 1311);
- Giovanni Soranzo (1312 – 1328);
- Francesco Dandolo (1328 – 1339);
Con il dogato di Francesco Dandolo (1329 – 1339) vengono coniate due nuove monete, la prima è il Mezzanino, titolo 0,78, peso gr. 0,24 e valente mezzo Grosso; anch’esso riporta nel rovescio il busto di San Marco. (fig. 6)
L’altra moneta è il Soldino, titolo 0,670, peso gr. 0,96 e valente 1/3 del Grosso, ed abbiamo, finalmente, il primo tondello veneziano con il leone raffigurato. (fig. 7)
D: ° + ° FRA ° DAN DVLO ° DVX °: il Doge con corno e manto è inginocchiato verso sinistra e tiene con entrambi le mani l’asta della bandiera che sventola verso destra: sulla bandiera tre globetti, senza cerchio
R: ° + ° S MARCVS ° VENETI : leone nimbato rampante verso sinistra, tiene tra le zampe anteriori un vessillo con banderuola rivolta verso destra; sulla banderuola tre globetti
E’ un leone ancora poco sofisticato, direi “arcaico” e non dissimile da altri effigiati in molte altre monetazioni, ma ha una peculiarità: è nimbato e ciò lo identifica con il nostro Santo; non lo identifica però come emblema della Serenissima, questo dovrebbe trovarsi sul vessillo, mentre invece ci sono degli anonimi globetti.
Al tempo del Doge successivo, Andrea Dandolo, Doge 54° (1342 – 1354) abbiamo ancora per l’ultima volta l’emissione del mezzo denaro o bianco, scodellato, sempre nel medesimo tipo già sopra descritto e l’emissione di una nuova monetina che ci dà alcuni spunti utili alla nostra ricerca; la moneta è il Tornesello (fig. 8) che dalla sua prima emissione, fino a quello coniato sotto il dogato di Francesco Foscari, si ripeté sempre uguale.
Questa moneta era stata pensata e coniata per una circolazione limitata ai territori del dominio veneziano in Grecia e doveva soppiantare, come in effetti avvenne, la monetazione locale che, ancora, si rifaceva al denaro tornese di origine francese (denier tournois).
Fu un’operazione riuscita che andò ben oltre le più rosee aspettative, tant’è che di questa monetina ne furono coniati milioni di pezzi nel periodo di dogato che va da Andrea Dandolo, a quello di Francesco Venier (1554 – 1556), pur con parecchie interruzioni; non si conoscono infatti torneselli coniati sotto i dogati di:
- Pasquale Malipiero (1457 – 1462);
- Nicolò Tron (1471 – 1473);
- Nicolò Marcello (1473 – 1474);
- Pietro Mocenigo (1474 – 1476);
- Andrea Vendramin (1476 – 1478);
- Giovanni Mocenigo (1478 – 1485);
- Marco Barbarigo (1485 – 1486);
- Francesco Donato (1545 – 1553);
- Marcantonio Trevisan (1553 – 1554).
e quelli coniati nel periodo che va dal dogato di Tommaso Mocenigo (1414 – 1423), fino a quello di Francesco Venier (1554 – 1556) sono tutti rari o conosciuti in pochissimi esemplari.
Era una moneta con un quantitativo di argento così infimo e che si ridusse nel tempo (titolo dallo 0,130 allo 0,027) ed anche un peso che da gr. 0,72 arrivò a gr. 0,55 che di fatto faceva si che non ci fosse assolutamente una parità di valore rispetto all’intrinseco. Una vera moneta dal valore fiduciario.
Sebbene la conservazione di questa monetina non sia tra le migliori, è importante leggerla.
D: + : ANDR : DANDVLO : DVX : croce patente.
R: + VEXILIFER : VENECIAL, : leone in soldo.
Ciò che ci interessa è il rovescio e la prima osservazione riguarda l’iconografia; c’è il leone, ma la sua figura ha assunto sulla moneta, per la prima volta, una caratteristica postura che ritroveremo spesso e non solo sui tondelli coniati, denominata “leone in soldo” e che i veneziani chiamarono, per la sua somiglianza, come il piccolo granchio nel momento della sua muta: leone in “moleca” o “mo’eca”. Immagine che più di altre è evocativa del carattere anfibio dato in questo modo al leone così rappresentato; ci rammenta che Venezia sorge dalle acque e si afferma successivamente sulla terra.
Il leone, alato, nimbato e con il muso di fronte, con il libro nelle zampe anteriori, non è infatti accosciato su di una ipotetica base virtuale; la sua parte posteriore è evanescente tra le onde; ci viene rappresentato, di fatto, un leone che nasce dalle onde e tutto questo nel piccolo spazio che il campo della moneta permette.
Non si può parlare, in questo periodo, di leone accosciato o seduto come taluni indicano; lo stesso Papadopoli, nel descrivere talune monete nel suo libro “Le monete di Venezia”, erroneamente scrive: leone accosciato sulle zampe posteriori, ma come può essere se l’intero posteriore del leone non è visibile perchè immerso ancora nelle acque? Si dovrebbe più propriamente parlare di leone sorgente dall’acqua o dalle onde.
Solo in epoca più tarda e solo su alcune monete, come i talleri, lo vedremo accosciato senza le onde dalle quali sorge.
La seconda osservazione, già fatta dal Papadopoli nel 1921 in occasione dell’assemblea ordinaria del Reale Istituto Veneto di Scienze, Lettere e Arti, riguarda la legenda che gira intorno al leone: “vexillifer venetiarum”.
Egli fece notare ai convenuti che il termine affermava che il leone era il vessillifero di Venezia, cioè colui che portava l’emblema della Repubblica, così come era raffigurato nel soldino che precedentemente ho descritto.
Come non essere d’accordo col Papadopoli circa il fatto che, in quel momento, al tempo del doge Andrea Dandolo (1342 – 1354), il leone fosse ancora il vessillifero della Repubblica e non il vessillo?
Sempre il Papadopoli, ritiene che l’assunzione del leone a simbolo della Serenissima debba essere avvenuta poco dopo, al tempo del Doge Giovanni Gradenigo (1355 – 1356).
Dal dogato di Cristoforo Moro (1462 – 1471) in poi, fino alla fine della sua coniazione, nella legenda del tornesello, sparirà il “vexilifer venetiarum” e prenderà il suo posto il classico S . MARCVS . VENETI. E’ forse un sintomo di un concetto che cambia?
Guardando il sigillo in uso durante il dogato di Giovanni Gradenigo, si vede distintamente il “Serenissimo” che tiene con entrambi le mani l’asta della bandiera e su questa, inequivocabilmente, si vede il leone in soldo.
Nel sito Internet del Sig. Giorgio Aldrighetti (www.iagi.info/ARALDICA/indexhtml), riguardante l’araldica civica di Venezia, vengono riportati alcuni sigilli usati in questo periodo; sigilli usati da magistrature, da baili, da rettori di città suddite; parte di queste immagini sono le stesse riportate dal Papadopoli nella relazione di cui ho parlato sopra e pubblicata dallo Stesso nel 1921.
Tra questi possiamo notare quello del Doge Giovanni Gradenigo, l’unico a forma di mandorla, con evidenziata a lato la bandiera “marciana”. (fig. 9) E’ lo stesso sigillo donato dal Papadopoli al museo Correr e riportato in calce al capitolo dedicato al doge Giovanni Gradenigo nel volume I° de “Le monete di Venezia”.
Nell’ordine da sinistra a destra e dall’alto al basso, abbiamo:
- Sigillo di Carlo Querini Capitano di galee nel 1301;
- Sigillo di Giovanni Gradenigo;
- Sigillo dell’ufficio del sale di Cervia;
- Impronta del sigillo attribuita dal Papadopoli al consigliere di Candia Paolo Donato, vero il 1308;
- Impronta del sigillo del bailo di Tripoli in Soria Marino Daurio;
- Impronta del sigillo del bailo di Costantinopoli Tommaso Soranzo nel 1318.
Tutti questi sigilli, per loro natura, dovevano necessariamente svolgere una funzione ufficiale; i nobili che temporaneamente svolgevano una dignità nel nome e per conto della Repubblica di Venezia, dovevano avere un sigillo che inequivocabilmente la dovesse rappresentare.
Apporre quindi su un documento l’immagine del leone era, nei primi anni del 1300, già bastante per certificare che quello scritto aveva l’avvallo e l’ufficialità della Serenissima.
Come conciliare quindi il fatto che al tempo di Andrea Dandolo (1342 – 1354), il leone sul tornesello venisse ancora definito vessillifero e non vessillo, quando già nei primi anni del 1300, il leone posto sui sigilli bastava per identificare Venezia?
E’ possibile che in questa manciata di anni ci fosse una commistione di simboli, tutti altrettanto ufficiali e tutti altrettanto accettati? Io credo di si e su questo argomento avrò modo di ritornare.
Come già detto, d’altra parte, Venezia non ufficializzò mai l’uso delle insegne che dovevano rappresentarla e questa assenza di documenti ufficiali ci consente solamente di avanzare ipotesi.
Tornando alle nostre monete, l’iconografia del leone in quelle coniate in questo periodo si ripete senza sensibili variazioni, fino al dogato di Andrea Contarini (1368 – 1382); il soldino, che alla data del 1368 ancora riportava le consuete immagini già adottate al tempo del Doge Francesco Dandolo (1328 – 1339), (fig. 10) viene modificato con disposizione del 19 dicembre 1369, in occasione della riduzione dell’intrinseco e del peso, ed al posto del leone rampante che porta l’orifiamma, viene posto il leone in soldo. (fig. 11).
Soldino primo tipo: titolo 0,965 e peso medio gr. 0,55
D: + ANDR’ 9 TAR DVX : Il doge inginocchiato a sinistra impugna il vessillo.
R: + ° S ° MARCVS ° VENETI °: leone rampante a sinistra con il vessillo, davanti al quale c’è iniziale del massaro.
Soldino secondo tipo: titolo 0,952 e peso medio gr. 0,51
D: ° + ANDR’ 9 TAR’ DVX : Il doge inginocchiato a sinistra impugna il vessillo, davanti al quale c’è l’iniziale del massaro.
R: + S ° MARCVS ° VENETI °: leone sorgente dalle acque tiene con le zampe anteriori il libro.
Le condizioni nelle quali versa il leone apposto sul soldino di cui sopra, sono sufficienti e possiamo ben notare che riprende l’iconografia dei sigilli e del tornesello.
Anche questo leone, infatti, non è seduto, o meglio accosciato, ma sorge dal mare, cioè da quelle linee ondeggianti che gli stanno a posteriori.
Nei dogati successivi l’iconografia del leone non cambia; muta talvolta lo stile con il quale lo si rappresenta, ma ciò è normale se consideriamo a quanti intagliatori dei conii si sono succeduti nel tempo. Ciascuno di loro vi ha profuso la propria capacità lavorativa e la loro abilità rappresentativa.
Passano così i dogati di:
- Bartolomeo Gradenigo (1339 – 1342);
- Andrea Dandolo (1342 – 1354);
- Marin Faliero (1354 – 1355);
- Giovanni Gradenigo (1355 – 1356);
- Giovanni Dolfin (1356 – 1361);
- Lorenzo Celsi (1361 – 1365);
- Marco Cornaro (1365 – 1368);
- Andrea Contarini (1368 – 1382);
- Michele Morosini (1382);
- Antonio Venier (1382 – 1400);
- Michele Steno (1400 – 1413);
- Tommaso Mocenigo (1414 – 1423);
- Francesco Foscari (1423 – 1457);
- Pasquale Malipiero (1457 – 1462);
- Cristoforo Moro (1462 – 1471);
- Nicolò Tron (1471 – 1473)