di Davide Maria Gabriele
Il presente studio, lungi dal voler assumere un taglio prettamente scientifico, predilige mantenere una carattere divulgativo, ciò soprattutto alla luce delle molteplici chiavi di lettura che possono rinvenirsi dall’esame di un corpus eterogeneo di medaglie.
Un taglio divulgativo, peraltro, in linea con quello che è stato il tema dei lavori illustrati in occasione della I Giornata di Studio “La numismatica e i giovani” nel quale il presente lavoro è stato presentato, seppur in forma ridotta, in anteprima.
Quando il mito diventa terra e la geografia si fa uomo
Ciò che nei miti si presenta inverosimile, è proprio quel che ci apre la via alla verità. Infatti, quanto più paradossale e straordinario è l’enigma, tanto più pare ammonirci a non affidarci alla nuda parola, ma ad affaticarci intorno alla verità riposta
Giuliano l’Apostata
Paradossali e straordinari sono proprio gli enigmi che ci si presentano prima facie dall’esame iconografico di moltissime delle medaglie realizzate durante il Regno delle Due Sicilie (1735–1861). Medaglie che colpiscono non solo per la particolare raffinatezza e alta maestria con la quale sono state realizzate, ma anche, e aggiungerei soprattutto, per il profondo significato che si cela dietro al mero dato iconografico nonché per la pluralità di piani di lettura che si possono ottenere scorporando le raffigurazioni.
Il presente lavoro si impegna a cercare di risolvere gli enigmi contenuti in questi mirabili tondelli, sottolineandone legami di continuità e differenze, esaminandoli secondo l’ordine cronologico della loro emissione.
Con il termine “Mito”, dal greco μῦϑος “parola, discorso, racconto, favola, leggenda“, si intende comunemente una narrazione fantastica tramandata oralmente o in forma scritta, con valore spesso religioso e comunque simbolico, di gesta compiute da figure divine che per un popolo, una cultura o una civiltà costituisce una spiegazione sia di fenomeni naturali sia dell’esperienza trascendentale, il fondamento del sistema sociale o la giustificazione del significato sacrale che si attribuisce a fatti o a personaggi storici.
Ma a partire dal sec. XIX il Mito, in quanto fenomeno antropologico, è stato oggetto di teorie che lo hanno interpretato, volta a volta, come espressione di una fase dello sviluppo storico della comunicazione umana, come testimonianza di esperienze e pratiche primitive ritenute comuni a tutti i popoli, o, più recentemente, come l’espressione simbolica di credenze e comportamenti tradizionali, radicati nelle strutture profonde della psiche.
Pertanto, il dato simbologico compiuto da figure divine e l’espressione simbolica di comportamenti radicati nella sfera psicologia di determinate civiltà appaiono come il dritto e il rovescio della medesima medaglia. Una medaglia chiamata Mito nella duplicità del proprio potere di esprimersi.
Analogamente anche la Cartografia, altro aspetto preponderante oggetto del presente studio, può assumere una pluralità di significati.
Nel prosieguo, infatti, non ci si potrà sempre riferire ad una cartografia intesa quale insieme di conoscenze scientifiche, tecniche e artistiche finalizzate alla rappresentazione simbolica ma veritiera di informazioni geografiche essendo la medaglia, in primo luogo, un oggetto d’arte e, come tale, non sottostante alle precise regole scientifiche. Allora meglio intendere la cartografia nella medaglia quale precisa e puntuale raffigurazione della realtà intesa come luogo geografico nel quale il Mito rivive per raccontare le sue gesta.
Nel cercare di dissipare il connubio, a volte troppo stretto, tra Mito e Geo occorre partire da una delle medaglie sicuramente più evocative tra quelle emesse in circa 130 anni di vita del Regno delle Due Sicilie, quella per l’incoronazione di Carlo di Borbone e “la maestà dell’Impero estesa“.
Il Re Carlo di Borbone partito da Napoli il 3 Gennaio 1735, si trattenne in principato Ultra, Puglie, Basilicata e Calabrie, fino alla metà del Marzo, quando gli giunse la nuova che tutta l’isola era sottomessa, meno Siracusa e Trapani. Si imbarcò alla marina di Palmi, e sbarcò a Messina, ove si trattenne fino al 18 Maggio, quando partì per Palermo per via di mare. Dopo entrata trionfale nel 31 del detto mese, convocò nel Duomo i tre ceti del parlamento, e i tre notabili per nobiltà e grado, e compiuti i sacri riti, montò sul trono e ad alta voce, tenendo la mano sul Vangelo, giurò di mantenere i diritti del popolo, le ragioni del parlamento e i privilegi della città, invitando i presenti a giurargli obbedienza e fedeltà. Tutti giurarono, e al terzo giorno nella chiesa istessa, vi fu l’unzione e coronazione di Carlo, simile alle precedenti di altri 18 Re coronati in quel tempio, ma più magnifica per pompa e ricchezza, dice il Colletta, poiché la corona pesante 19 Once, di oro, argento e pietre preziose, costava un milione e quattrocentoquaranta mila Ducati. ((“Le monete di Carlo Borbone in Sicilia col numerale III”, Bollettino del Circolo Numismatico Napoletano, n° 1, anno XIII, Gennaio-Aprile 1932.))
La prima medaglia siciliana di Carlo di Borbone datata 1735, commemora la rituale incoronazione e unzione nel Duomo di Palermo avvenuta in quell’anno, un avvenimento di grande importanza storica per i Borbone e per questo, l’artista Livio Vittorio Scheper incise su questo conio un messaggio molto chiaro. La vigorosa capigliatura e l’espressione orgogliosa del giovane Carlo sono elementi carichi di realismo e riscontrabili in tutte le sue medaglie. In generale, le medaglie sono sempre state considerate come il miglior mezzo di propaganda, su di esse la raffigurazione del sovrano trasmette potenza e sicurezza e Carlo di Borbone non deluse certo le aspettative.
Partito dalla Spagna a capo di un grande esercito messogli a disposizione dal padre Filippo V e comandato dal Duca di Montemar, conquistò nel giro di pochi mesi i Regni di Napoli e di Sicilia trovando scarsa resistenza da parte dell’esercito austriaco (quest’ultimo occupava i due reami rispettivamente dal 1707 e dal 1720), in seguito, il nuovo sovrano fu liberatore e padre della patria, dedito a svolgere ogni qualsiasi azione per il bene dei suoi regni.
I virtù infatti del primo patto di famiglia del 1734, che porta la Spagna ad intervenire nella Guerra di Successione polacca, Carlo riconquista Napoli e la Sicilia dopo la decisiva battaglia di Bitonto del 25 maggio 1734 e viene riconosciuto come Re di Napoli e Sicilia dai Trattati di Vienna del 1735. Come contropartita egli rinunciò ai Ducati di Parma, Piacenza e Toscana che finirono, senza la Toscana ma con Guastalla, nelle mani di suo fratello minore Filippo, Capo della Real Casa Borbone-Parma, secondo figlio di Elisabetta Farnese e genero di Luigi XV.
Un sovrano che ancora oggi, a distanza di oltre due secoli e mezzo, mette d’accordo tutti gli storiografi sulle sue inusitate doti di condottiero e sovrano. Nei suoi venticinque anni di regno, grazie al suo buongoverno, vi fu una miglioria generale e i suoi reami non furono più province di imperi decadenti ma nazioni europee.
Egli dette inizio alla costruzione di opere grandiose, molte delle quali di indubbia utilità sociale, sorsero infatti cantieri ovunque: strade, ponti, ospedali, porti e soprattutto la formazione di un esercito e di una marina nazionale autoctona (queste ultime non più dipendenti dalla Spagna).
1735 — Per l’incoronazione di Carlo e la maestà dell’Impero estesa (D’Auria 3);
D/ CAROLVS D . G . VTRI SIC . ET . HIER . REX . HISP . INF ; Busto del Re a destra, con parrucca e corona di fronde d’alloro , indossa il manto e la corazza.
R/ PORRECTA . MAIESTAS . Il Re Carlo stante in piedi con corazza e manto, indica il luogo dove nasce il sole. Dietro: mappa della Sicilia e parte della Calabria. All’esergo: ƆICDCCXXV.1734
La legenda del rovescio della medaglia in figura 1 si riferisce ad un passo di Orazio,
CARMINA LIBER IV: PER QUOS LATINUM NOMEN ET ITALIAE CREVERE VIRES FAMAQUE ET IMPERII PORRECTA MAIESTAS AD ORTUS SOLIS AB HESPERIO CUBUILI (attraverso le quali il popolo latino e le forze italiche hanno accresciuto la fama e la maestà estesa dall’Impero dall’occidente al luogo dove il sole sorge)
L’iconografia del rovescio in oggetto, peraltro non del tutto inconsueta se paragonata a quella delle medaglie del c.d. periodo vicereale, racconta di un connubio ancora strettamente legato al classicismo che impronta in tutto il XVII e XVIII secolo le raffigurazioni dei sovrani.
Il novello unificatore dell’impero stante a sinistra, abbigliato come un Imperatore romano in tenuta da guerra, con alle spalle la mappa della Sicilia e parte della Calabria, tende il braccio sinistro indicando verso destra.
Quella che si apre sullo sfondo alle spalle del sovrano è molto più di una semplice cartina geografica, si tratta infatti della realizzazione piena della pluralità di accezioni che connotano la cartografia, in particolare per ciò che riguarda il simbolo che essa rappresenta.
Carlo III diventa quindi simbolo di conquista e di positivo accrescimento dell’Impero, ergendosi con il manto dei Sovrani a novello Colosso di Rodi indica l’est, punto in cui sorge il sole. Sono infatti le Sicilie conquistate il primo lembo di terra del suo novello impero sul quale il sole sorgeva.
Il mito del Colosso di Rodi ha inizio nel 305 a.C., allorquando Demetrio I Poliorcete, figlio di un successore di Alessandro Magno, invase Rodi con un’armata di 40.000 uomini. La città di Rodi era ben difesa e Demetrio costruì delle enormi catapulte montate sulle navi, per distruggere le mura della città. Dopo che una tempesta gli distrusse le navi, fu costretto a costruire una torre d’assedio ancora più grande delle precedenti catapulte: i rodiesi allagarono il terreno prospiciente le mura, impedendo alla torre d’assedio di muoversi e rendendola inoffensiva. L’assedio terminò nel 304 a.C., quando il generale Politemo arrivò con una flotta in difesa della città e Demetrio dovette ripiegare abbandonando la maggior parte dell’equipaggiamento.
Per celebrare la loro vittoria, i rodiesi decisero di costruire una gigantesca statua in onore di Helios, il loro dio protettore nel porto di Rodi. La costruzione fu affidata a Carete di Lindo che aveva già costruito statue di ragguardevoli dimensioni.
Ma se la maestà di Carlo III si erge a novello Colosso dell’Impero egli, custode dei domini spagnoli, in questa medaglia richiama anche un’altra tradizione del mito classico, quella delle Colonne di Ercole. Alla sinistra della figura è infatti possibile notare la rappresentazione cartografica dello stretto di Gibilterra.
Le Colonne d’Ercole nella letteratura classica occidentale indicano il limite estremo del mondo conosciuto. Oltre che un concetto geografico, esprimono metaforicamente anche il concetto di “limite della conoscenza”. Geograficamente e tradizionalmente, visto che la loro esistenza è presunta, vengono collocate in corrispondenza della Rocca di Gibilterra e del Jebel Musa (oppure del Monte Hacho) che sorgono rispettivamente sulla costa europea e quella africana, una volta chiamate Calpe e Abila.
Secondo la mitologia classica Ercole, in greco Eracle, in una delle sue dodici fatiche aveva ricevuto in compito di recuperare le mandrie di Gerione, che il pastore Eurizione custodiva nell’isola Eurizia, situata ai confini dell’Occidente. Giunto sui monti Calpe e Abila creduti i limiti estremi del mondo, oltre i quali era vietato il passaggio a tutti i mortali, separò il monte ivi presente in due parti (le due colonne d’Ercole) e incise la scritta non plus ultra (letteramente “non più avanti”).
Le favole antiche furono accolte nella cartografia dal Medioevo fino al Cinquecento: in molti planisferi medievali le “colonne d’Ercole” erano collocate in prossimità dello Stretto ma, via via che i navigatori si addentravano nell’Atlantico, le colonne venivano spostate sulle carte fino alle terre raggiunte per ultime, così segnando i confini del mondo conosciuto.
Proseguendo nel nostro viaggio fantastico tra dicotomie e antinomie di Mito e Geo non possiamo evitare di soffermarci su un’altra medaglia di Carlo III dal forte impatto simbolico, quella per la riscoperta delle miniere calabro-sicule.
Lo storiografo di Corte, Gennario Grossi di Arce, nel suo manoscritto sul Regno di Carlo III, conservato nell’Archivio di Stato di Napoli, così riferisce:
Sua Maestà volendo da una parte assolutamente ovviare la grande estrazione del numerario, che facevasi per l’acquisto di ferro, del rame, dello stagno e del piombo stranieri e di altri metalli fossili, e bramando dall’altro arricchire la R. Zecca; la Consulta ossia la giunta opinò di scoprirsi di nuovo e travagliarsi le antiche miniere rammentate da Strabone esistenti nei Bruzii, e che erano state occultate dalla politica del Senato Romano. Come infatti dal 1748 al 1756 si attese di proposito a questa operazione. Furono quindi ritrovate e fatti i saggi di molte miniere nelle due Calabrie. Quelle in argento ascesero al n. 18, di piombo al n. di 14, di rame al n. di 8 e di antimonio una, di carbone fossile una e tutte di una rendita abbondante.
Grandi furono le speranze riposte in queste miniere e nei primi minerali estratti, che furono celebrati con questa medaglia di cui, peraltro, non si trovano notizie nelle carte della Zecca. Peraltro la decantata abbondanza fu solo un pio desiderio del Monarca e dei suoi collaboratori poiché ben presto vennero abbandonate.
Nella disamina della stessa notiamo subito la forte presenza iconografica di Mercurio che si staglia nettamente dal centro della medaglia invadendo la scena. Mercurio, nome latino del dio greco Hermes, Ερμής, figlio di Zeus e della ninfa Maia, era il messaggero degli dei, dio protettore dei viaggi e dei viaggiatori, della comunicazione, dell’inganno, dei ladri, dei truffatori, dei bugiardi, delle sostanze, della divinazione. Tra gli altri ruoli, Hermes era anche il portatore dei sogni e il conduttore delle anime dei morti negli inferi.
In questa medaglia Mercurio assume il significato della innovazione e della scoperta, egli sembra infatti destare l’uomo riccamente abbigliato con in braccio una cornucopia.
Secondo la mitologia greca la cornucopia rappresenta il corno perduto dal fiume Acheloo((Acheloo (in greco Ἂχελῷoς, -ου, in latino Ăchĕlōus, -i) è una divinità fluviale della mitologia greca. È la più importante delle divinità fluviali greche e corrisponde all’odierno fiume Aspropotamo, il secondo fra i fiumi più lunghi della Grecia.)) nella lotta con Ercole per Deianira e riempito dalle Naiadi di fiori e di frutta, come simbolo dell’abbondanza, alludendo con ciò alla fertilità della valle dove scorreva l’ Acheloo e all’imbrigliamento del fiume stesso per opera di qualche principe velato sotto il nome del semidio.
Secondo un’altra versione del mito, il corno apparterrebbe ad Amaltea, la capra che accolse e nutrì Giove nella sua infanzia a Creta. Come ringraziamento il padre degli dei benedisse le sue corna conferendo loro poteri magici.
In forma di corno traboccante frutta e fiori, è spesso presente nei dipinti in braccio alla figura simbolica dell’abbondanza.
Il messaggio sembrerebbe quindi consistere nel nuovo risveglio economico per tutte le popolazioni che, ignare della fecondità di metalli che nasconde il sottosuolo, riposano indolentemente sull’enorme ricchezza riscoperta.
Particolarmente indicativo sotto questo profilo è quindi il fatto che dalla cornucopia trabocchino i simboli convenzionali indicanti il carbone, il ferro, il rame e il piombo, gli stessi metalli che venivano estratti dalle miniere calabro-sicule.
Passando poi al periodo relativo al regno di Ferdinando IV assume particolare interesse una delle due tipologie di medaglie realizzate a ricordo del viaggio in Etruria degli Augusti Sovrani, quella con al dritto il busto di Maria Carolina (figura 4).
Pietro Colletta((Pietro Colletta (Napoli, 23 gennaio 1775 Firenze, 11 novembre 1831) è stato un patriota, storico e generale italiano.)) nel suo “Storia del reame di Napoli dal 1734 al 1825” ci fornisce una dettagliata descrizione del corteo reale e delle tappe del viaggio compiuto che, secondo le fonti, fu fortemente voluto dalla Regina.
Il dì 30 aprile 1785 imbarcarono sopra vascello riccamente ornato, che, seguito da altre dodici navi da guerra, volse a Livorno; non tocchi gli stati di Roma per disdegno di riverire il Pontefice, allora nemico. Arrivati in porto, furono subito visitati da’ i principi della Toscana coi quali passarono a Pisa e Firenze. Da Firenze passarono i due sovrani Milano, indi a Torino e Genova dove s’imbarcarono su la flotta medesima, accresciuta di legni inglesi, olandesi e di Malta che insieme ai legni del Re lo convogliarono sino al porto di Napoli.
Sorvolando sulla incredibile precisione con cui l’incisore Veber ci ha tramandato una nitidissima visione prospettica della città di Firenze nel XVIII secolo occorre prestare attenzione alla figura sdraiata all’angolo destro della medaglia, rappresentate il Fiume Arno.
I fiumi sono stati in tutto il mondo culla di civiltà nonché importanti vie di comunicazione, e linfa per il fiorire di civiltà. Lungo il loro corso sono sorte città, si sono sviluppate società e culture, sono avvenuti incontri e scambi, guerre e trattati. Sono nati i miti più antichi, i poemi e i racconti, le opere d’arte e le composizioni musicali.
I libri di storia ci raccontano gli accadimenti più importanti che hanno caratterizzato un territorio, le guerre e le paci, l’economia e la politica, i grandi condottieri e gli uomini di scienza ma tra le montagne, dalle valli alpine a quelle appenniniche, tutte queste vicende corrono anche sul filo di altre voci, meno appariscenti ma diffuse, raccolte tutte nelle antiche leggende.
E proprio a questa silenziosa e tacita importanza, qui rappresentata dal fiume Arno che ha dato la vita e sul quale anche iconograficamente si fonda la città di Firenze, sembrano rendere omaggio il gruppo di quattro personaggi Reali in piedi. Forse consapevoli del fatto che anche il più prospero degli imperi deve la propria sopravvivenza alla benevolenza della natura.
Anche relativamente alla medaglia in figura 5 occorre ricordare un passo di Pietro Colletta:
Sospesa la guerra; posate le ansietà de’Sovrani di Vienna e di Napoli, fu loro cura il viaggio dell’arciduchessa Clementina per venire sposa del principe Francesco; nozze, fermate sette anni avanti, e non celebrate per l’età infantile di ambo gli sposi. L’arciduchessa andava a Trieste, dove naviglio napoletano l’attendeva; lo sposo la incontrava a Manfredonia; le religioni del matrimonio si fecero a Foggia. Accompagnarono il principe i regali genitori, con seguito infinito di baroni e di grandi; e celebrate i giugno le nozze, tornarono in Napoli nel seguente luglio, tra feste convenevoli ed erede della corona.
Quella presente nella medaglia per le nozze del Duca di Calabria con Maria Clementina d’Austria è forse una delle scene allegoriche più complesse tra quelle che possiamo rinvenire nell’intera produzione medaglistica del Regno delle Due Sicilie. Del tutto tangibile è infatti la possibilità di scorporare la raffigurazione in una pluralità di piani che, sovrapponendosi prospetticamente, in realtà assumono diverse chiavi di lettura.
Il tutto sembra racchiuso e fondarsi su ciò che dovrebbe essere invece semplice sfondo.
La spiaggia di Manfredonia, le pendici del Gargano, le greggi al pascolo, il Lago Salato, le isole Tremiti, e le quattro navi del corteo regale sono la precisissima rappresentazione cartografica dell’avvenimento celebrato che solo nel primo piano della medaglia diventano Mito, prendendo vita in figure mitologiche e allegoriche per nasconderne il significato augurale.
Partendo dall’alto del rovescio è infatti possibile notare come le colombe, simbolo per antonomasia di purezza e ivi utilizzate in riferimento all’illibatezza della futura sposa, in discesa sull’ara non seguano un percorso perpendicolare. Si tratta di un riferimento non da poco, la curva seguita dai volatili segna infatti “cartograficamente” la rotta seguita dai vascelli, che prospetticamente lambiscono, per approdare a Manfredonia.
Continuando a seguire una chiave di lettura “discendente” della scena si passa poi alla figura di Cupido con l’arco e un giglio nella mano, rivolto verso un Genio alato che nei pressi di un’ara è intento ad accendere il fuoco propiziatorio. Il messaggio è chiarissimo: la divinità rappresentata con gli attributi che le sono propri consacra sull’altare dell’amore l’unione dei nubendi, nel segno di una propizia continuazione della dinastia rappresentata dal giglio borbonico. Altro riferimento non di poco conto è la Fenice che nasce dalle fiamme dell’ara. Dell’uccello mitologico noto per il fatto di rinascere dalle proprie ceneri dopo la morte si hanno notizie fin dai tempi remoti. Gli antichi egizi furono i primi a parlare del Bennu, poi divenuta Fenice nelle leggende greche. In Egitto era solitamente raffigurata con la corona Atef o con l’emblema del disco solare. Contrariamente alle “fenici” di tutte le altre civiltà quella egizia non era raffigurata come simile né ad un rapace, né ad un uccello tropicale dai variopinti colori, ma era inizialmente simile ad un passero o ad un airone cenerino, inoltre non risorgeva dalle fiamme ma dalle acque.
Nei miti greci era un favoloso uccello sacro, diverso rispetto al mito egizio anche come aspetto, infatti assomigliava ad un’aquila reale e il piumaggio dal colore splendido, il collo color d’oro, rosse le piume del corpo e azzurra la coda con penne rosee, ali in parte d’oro e in parte di porpora, un lungo becco affusolato, lunghe zampe, due lunghe piume una rosa e una azzurra che le scivolano morbidamente giù dal capo (o erette sulla sommità del capo) e tre lunghe piume che pendono dalla coda piumata: una rosea, una azzurra e una color rosso-fuoco.
Il motto della fenice è Post fata resurgo (“dopo la morte torno ad alzarmi“).
L’araba fenice è divenuto man mano il simbolo della morte e risurrezione. “Come l’araba fenice che risorge dalle proprie ceneri” dopo aver vissuto per 500 anni, la Fenice sentiva sopraggiungere la sua morte, si ritirava in un luogo appartato e costruiva un nido sulla cima di una quercia o di una palma.
Qui accatastava le più pregiate piante balsamiche, con le quali intrecciava un nido a forma di uovo, ove si adagiava. Lì lasciava che i raggi del sole l’incendiassero, facendosi consumare dalle sue stesse fiamme.
Per via della cannella e della mirra che bruciano, la morte di una fenice è spesso accompagnata da un gradevole profumo. Dal cumulo di cenere emergeva poi una piccola larva (o un uovo), che gli stessi raggi solari, che dapprima ne avevano causato la morte, facevano crescere rapidamente fino a trasformarla nella nuova Fenice nell’arco di tre giorni. Una volta divenuta giovane e potente, volava ad Eliopoli e si posava sopra l’albero sacro.
In riferimento alla medaglia in oggetto, quindi, la Fenice, dalla cui gola si dice giungesse il soffio della vita che animò il Dio, simboleggia la rinascita della dinastia rigenerata da una nuova unione con l’Austria. Unione non soltanto come connubio d’amore ma anche nella accezione politica di rinnovata pace tra le potenze rappresentate dai nubendi.
Sul fronte dell’ara troviamo scolpito invece il toro cornupeta, richiamo mitologico fortissimo all’acqua simbolo per eccellenza della vita umana e le lettere IIOYΛ, Puglia, che ricordano al mondo il luogo in cui si intrecciarono per la prima volta le vite dei due amanti.
Posti agli estremi della medaglia, troviamo quasi a vigilare la regolarità della cerimonia sacra, Minerva e Cerere, rispettivamente a sinistra e a destra.
La loro presenza agli estremi sottolinea e rafforza il significato della scena centrale.
Minerva, definita da Publio Ovidio Nasone “divinità dai mille compiti“, era la figlia di Giove e di Meti. Venne considerata la divinità vergine della guerra giusta, della strategia, della saggezza, dell’ingegno, delle arti utili (architettura, ingegneria, scienza, matematica, geometria, artigianato e tessitura).
Mentre Cerere era una divinità materna della terra e della fertilità, nume tutelare dei raccolti, ma anche dea della nascita, poiché tutti i fiori, la frutta e gli esseri viventi erano ritenuti suoi doni, tant’è che si pensava avesse insegnato agli uomini la coltivazione dei campi.
Pertanto, se si volesse idealmente paragonare la lettura della scena complessiva del rovescio della medaglia in oggetto, secondo lo stesso andamento con cui si legge uno scritto,da sinistra a destra, possiamo trovare un messaggio molto interessante.
L’impeto della pur giusta guerra condotta dalla Minerva di Napoli avverso gli austriaci trovava nuova vita in Puglia sull’ara dell’amore, con la benedizione del divino nella sua accezione cristiana e pagana (la colomba e il Cupido), attraverso la nascita di una fertile unione.
Passando ad un’altra medaglia di Ferdinando IV possiamo rinvenire un impianto iconografico molto simile al precedente, ma con delle differenze non di poco conto sul piano simbolico.
Particolare interesse rivestono le figure in secondo piano e nello sfondo della medaglia, il mito del Sebeto verrà ampiamente descritto nel prosieguo del presente lavoro allorché si tratterà di una particolare medaglia di Francesco I.
Partendo dallo sfondo della scena, primo rilievo assumono le quattro sirene che sembrano accompagnare lo svolgimento della scena con strumenti musicali e canti. Le Sirene sono menzionate per la prima volta nell’Odissea, dove sono in numero di due. Ligia, Leucosia e Partenope dalla quale il nome antico di Napoli.
Esse sono un’altra personificazione dei pericoli del mare, demoni marini, metà donne e metà uccelli; il loro padre era il dio-fiume Acheloo e la madre la musa Melpomene, oppure la musa Tersicore. Nella tradizione sono musiciste squisite e, secondo Apollodoro, una suonava la lira, un’altra cantava, la terza teneva il flauto.
Secondo la leggenda l’isola delle Sirene era posta lungo la costa dell’Italia meridionale, al largo della penisola di Sorrento, con il fascino della loro musica esse attiravano i marinai che passavano nelle vicinanze, le navi si avvicinavano allora pericolosamente alla costa rocciosa e si fracassavano, e le Sirene divoravano gli imprudenti.
Secondo la leggenda gli Argonauti passarono loro vicino, ma Orfeo cantò tanto melodiosamente, che i marinai della nave “Argo” non ebbero voglia di ascoltarle. Solo Bute si lanciò in mare, ma fu salvato da Afrodite.
Anche Ulisse solcò quelle acque ma, preavvertito da Circe, ordinò ai suoi uomini di tapparsi le orecchie con la cera; lui stesso si fece legare a un albero della nave, vietando ai compagni di slegarlo, qualunque supplica avesse loro rivolto. La storia racconta che le Sirene, indispettite dal proprio insuccesso, si buttarono in mare e affogarono.
Circa la loro origine e le loro ibride sembianze, le versioni sono diverse. Ovidio sostiene che un tempo esse erano donne comuni, ma chiesero agli dei il beneficio delle ali, per cercare sui mari una loro compagna rapita da Plutone. Secondo altri, erano state trasformate da Demetra, quale punizione per non essersi opposte al rapimento di sua figlia. Oppure che Afrodite le aveva private della bellezza, perché disdegnavano i piaceri d’amore.
Nelle leggende successive furono considerate divinità dell’aldilà e per questo motivo sono spesso raffigurate sui sarcofagi.
I primi racconti noti sulle sirene sono apparsi in Assiria, intorno al 1000 a.C..
La dea Atargatis, comunemente conosciuta ai greci con il nome Derketo, era innamorata di un semplice mortale (un pecoraio), ma lo uccise involontariamente. Vergognandosi dell’omicidio commesso, saltò in un lago e si trasformò in una sirena: donna nella parte superiore del corpo e pesce nella parte inferiore. Tuttavia le prime rappresentazioni di Atargatis la dipingono come un pesce dotato di testa umana e braccia.
Lo scrittore Luciano di Samosata((De Dea Syria Parte 2, Capitolo 14)) in De Dea Syria descrive l’aspetto della dea Derketo:
È donna per metà della sua lunghezza; ma l’altra metà, dalle cosce ai piedi, si dilunga in una coda di pesce
Continuando poi nella disamina iconografica della medaglia, occorre soffermarsi sulla figura presente nell’ara del Toro Androcefalo, ossia con volto umano. Questa figura pare da ricongiungersi al mito di Acheloo. Figlio del titano Oceano e della titanide Teti, primo fra tutti i fratelli fiumi, era immaginato in forma di toro, come spesso anche altre divinità fluviali. Compare nel ciclo delle fatiche di Eracle: infatti aspirava alle nozze con Deianira, figlia di Eneo, re degli Etoli, che era stata chiesta in moglie proprio da Eracle; durante la lotta fra i due, Acheloo si trasformò prima in toro, come narra Sofocle, poi in un drago viscido e iridescente e infine in un uomo dalla testa di bue, ed Eracle gli strappò un corno; l’episodio è narrato da Ovidio nelle Metamorfosi. Allora Acheloo si considerò vinto e gli cedette il diritto di sposare Deianira, ma gli richiese il suo corno, dandogli in cambio un corno della capra Amaltea, la nutrice di Zeus, ossia la cornucopia.
Infine la scena principale della medaglia, quella del sacrificio che viene compiuto sull’ara. Questa scena è da ricollegarsi all’insieme di usi diffusi nell’antica Roma. A quel tempo la presenza degli dei era molto sentita, non tanto per devozione nel senso moderno del termine, quanto piuttosto per salvaguardare l’esigenza di mantenimento della c.d. pax deorum, la pace tra dei e uomini regolata dall’ancestrale principio del do ut des. Infatti, più gli uomini celebravano sacrifici, riti e festività, più gli dei ricompensavano con la generosità.
La raffigurazione di un sacrificio cruento come quello presente nella medaglia de quo rappresenta quindi la contropartita per il voto esaudito. Il Re è tornato sul trono di Napoli e, con un forte parallelismo di rimando al pagano dell’epoca classica, occorre rendere grazie per averlo salvaguardato durante la sua assenza.
Nel prosieguo della disamina delle medaglie di Ferdinando IV, all’epoca dell’emissione già con il nuovo numerale del Regno riunito, occorre adesso concentrarsi su una medaglia che riporta quello che senza dubbio rappresenta uno dei simboli più antichi e caratterizzanti dell’identità siciliana, la Trinacria.
La Trinacria risulta essere un elemento simbolico composito. La testa centrale appartiene alla Gorgone, personaggio mitologico che secondo il poeta greco Esiodo, vissuto a cavallo tra l’VIII e il VII sec. a.C., rappresentava tutta insieme ognuna della tre figlie di Forco e Ceto, due divinità del mare: Medusa (la gorgone per antonomasia), Steno (“la forte”), Euriale (“la spaziosa”).
Medusa, unica mortale fra le tre e loro regina, era la custode degli Inferi. Le Gorgoni rappresentavano la perversione nelle sue tre forme: Euriale rappresentava la perversione sessuale, Steno la perversione morale e Medusa la perversione intellettuale.
Figure dotate di zanne di cinghiale, mani di bronzo, ali d’oro, serpenti sulla testa e nella vita. Abitavano presso le Esperidi (figlie di Atlante, abitanti presso l’isola dei Beati, nella parte più occidentale del mondo), e erano in grado, con uno sguardo, di pietrificare gli uomini.
Ogni loro caratteristica nasconde in sè un significato ben preciso. Le spighe di grano sono simbolo della fertilità del territorio. Le tre gambe rappresentano i tre promontori, punti estremi dell’isola – capo Peloro (o punta del Faro, Messina: Nord-Est), capo Passero (Siracusa: Sud), capo Lilibeo (o capo Boeo, Marsala: Ovest) – la cui disposizione, si ritrova nel termine greco triskeles, e si ricollega al significato geografico: treis (tre) e akra (promontori): da cui anche nel latino triquetra (“a tre vertici”).
La disposizione delle tre gambe fa pensare alla simbologia religiosa orientale, in particolare quella del dio del Tempo Baal oppure a quella della luna, dove le tre gambe sono sostituite da falci.
Secondo alcuni riferimenti storici, il simbolo fu utilizzato anche a Creta, in Macedonia, e nella Spagna celtiberica (area centrosettentrionale). Anche Omero, nella Odissea, alludendo alla forma dell’isola, utilizza il termine Thrinakie, che deriva da thrinax (“dalle tre punte”).
Le origini della trinacria sono da ricercare nella storia della Grecia antica. I combattenti spartani incidevano nei loro scudi una gamba bianca piegata all’altezza del ginocchio: simbolo di forza.
Una delle medaglie che più di tutte rappresenta l’unione tra i regni al di qua e al di la de faro è quella in fig. 10, realizzata sotto il Regno di Francesco I in occasione della bonifica delle Puglie.
Il Re stante all’eroica aiuta ad alzarsi due figure inginocchiate ai suoi piedi, la Pastorizia (sinistra) e l’Agricoltura (destra), ai lati due fanciulli rendono grazie.
La Daunia, in greco Δαυνία, cui fa riferimento il rovescio della presente medaglia è una sub regione geografico–culturale della Puglia settentrionale corrispondente pressoché all’attuale Provincia di Foggia, di cui diviene denominazione non ufficiale. Comprendeva l’intero Tavoliere delle Puglie, il Gargano e il Subappennino Dauno oltre ad alcuni altri centri attualmente all’interno dei confini di Basilicata, Molise e Provincia di Barletta-Andria-Trani.
Sebbene la raffigurazione presente nel rovescio di questa medaglia non brilli per particolare eclettismo essa risulta, nella sua ferma plasticità, ricca di riferimenti.
In particolare i lembi in cuoio che formano la parte bassa dell’armatura del Re, esaminati a forte ingrandimento, presentano ad alternanza elementi decorativi a forma di trinacria, di torre e di giglio borbonico. Ciò ad indicare che la maestà dell’impero sebbene formata da due regni con diverse culture e tradizioni trova nella figura del Sovrano la sua unità.
Avviandoci verso la fine del nostro excursus non possiamo mancare di approfondire una medaglia che rappresenta, forse nella sua maggiore interezza, la possenza del Sebeto (figura sebeto).
In questa medaglia si staglia, quasi fuoriuscendo dal tondello, la figura possente del Sebeto che invade dirompente tutta la scena.
La città di Napoli ha da sempre uno stretto rapporto con l’acqua. Un legame misterioso, certamente alimentato dalla sua posizione avanzata sulla costa, così come dai suoi corsi d’acqua interni. Alcuni di questi scorrevano sotterranei, altri addirittura erano navigabili, come il fiume che scorreva nella zona orientale, scomparso intorno al XIV secolo. Il Sebeto, scendendo dal monte Somma, attraversava le campagne di Casalnuovo, Volla, Ponticelli per dividersi a Napoli in due rami, uno sfociante al Ponte della Maddalena, l’altro alle falde della collina di Pizzofalcone, nei pressi dell’isolotto di Megaride, dove s’insediò il primitivo porto di Partenope. Il fiume aveva le sue sorgenti alle falde del Vesuvio, una volta ricco d’acqua e pescoso. Con il volger dei secoli subì varie modifiche nel suo percorso, dovute alle eruzioni del Vesuvio e ai movimenti tellurici.
L’etimologia del nome resta ancora oscura. Secondo alcuni, infatti, sarebbe da far risalire all’usanza diffusa nel popolo dei Fenici di dare a luoghi e cose dei nomi, dove Sebeto sarebbe il corrispettivo della parola palestinese Sabato, conosciuto come “la fonte degli orti“,
certamente riferiti alla lussureggiante campagna della valle vesuviana. Solo il Sebeto, quindi, meritava questo nome, perché da esso dipendeva la vita di tutte le campagne.
Questa etimologia viene suffragata da un altro sabato, ossia dal giorno della settimana, che risale addirittura al tempo dei babilonesi i quali, credendo che la dea della Luna Ishtar avesse le mestruazioni durante il plenilunio, e quindi fosse molto nervosa, chiamavano questo giorno sabattu, cioè “brutto giorno”, destinandolo al riposo. Anche l’ebraico ha la parola shabbâth col significato di riposo; lo stesso ciclo lunare era chiamato Sabattu e le acque sono sempre simbolicamente appartenute all’astro d’argento.
Qualcuno ha invece ritenuto che Sebeto provenisse dal greco Sebo, che significa “andare con impeto”, etimologia contestata da De la Ville sur-Yllon il quale ricorda che sebo significa “onorare con culto” e che apparirebbe in contrasto con i versi con cui Metastasio lo ha immortalato:
placido Sebeto / che taciturno e cheto / quanto ricco d’onor, povero d’onde
L’epigrafe in marmo di età imperiale, rinvenuta scavando nei pressi di Porta del Mercato,
è una delle prove a suffragio della reale esistenza in tempi antichi del fiume.
Tale epigrafe, infatti, rappresenta un tempietto in onore al Sebeto che porta la scritta
“P. Mevius Eufychus aedicolam restituit Sebetho” a testimonianza del fatto che P. Mevio Eutico consacrò un secello al leggendario fiume. Altra prova dell’esistenza del Sebeto si trova a Largo Sermoneta, dove una fontana che venne costruita nel 1635 dall’architetto Cosimo Fanzago per volere del Viceré Fonseca, ancora oggi, ricorda il fiume scomparso.
Il Sebeto viene rappresentato come un vecchio dalla barba fluente in posizione adagiata su una conchiglia tra due obelischi. Affiancate figurano peraltro le sculture di due tritoni portatori delle buccine (piccoli vasi) da cui sgorga l’acqua. La fontana è riccamente decorata; in alto, sull’arco, vi sono una lapide e gli stemmi di viceré, città e re. Per qualche secolo la fontana trovò luogo dappresso alla statua del gigante, sita in Largo di Palazzo (attuale via Cesario Console), ma in seguito subì numerose ricollocazioni: solo nel 1903 fu sistemata in via Partenope e infine a Largo Sermoneta, dove tutt’oggi è possibile ammirarla.
E tuttavia, nonostante i segni che lo vogliono come realmente esistito, potremmo ancora continuare a considerare il Sebeto come frutto dell’immaginazione umana se non fosse per il fatto che penne troppo illustri hanno parlato del fiume scomparso. L. Giunio Columella e Papinio Stazio furono forse i primi. Virgilio, nel VII libro dell’Eneide lo chiamò “Sebthide Ninpha” e, nell’età umanistica, Boccaccio, Pontano e Sannazzaro battezzarono il fiume che in origine era chiamato Rubeolo, con il nome di “Sebeto”.
La sua origine, ancora avvolta dalla leggenda, narra dello stretto rapporto tra acqua e fuoco che da sempre caratterizza la vita della terra e in particolar modo questa zona. Un mito affascinante che racconta il legame degli uomini con le forze della natura. La leggenda riporta che sulla spiaggia Vesevo e Sebeto, due antichi giganti più potenti degli Dei romani e più forti dei Titani greci, si incontravano, il primo sputando torrenti di fuoco, l’altro frantumando sassi e trascinandoli in mare. Quando sfiniti dalla battaglia, i due giganti si riposavano, fioriva la vita su quello che era stato il loro campo di battaglia: le gialle ginestre si inerpicavano tra i sassi del vulcano sin quasi alla bocca di fuoco, i cespugli di mirto e lentisco intrecciavano le loro piccole foglie nella fertile pianura e l’erica rosata spingeva le sue radici fin nella sabbia salata. Nell’alternarsi di queste fasi giunsero allora i primi coloni che onoravano e rispettavano le due divinità, vivendo come spettatori delle loro lotte per conquistare la bellissima ninfa Leucopetra, figlia di Nettuno. Solo con il passare dei secoli, a seguito dell’interramento di Sebeto e del lungo silenzio di Vesevo la memoria della loro forte presenza andò scomparendo.
Un’altra affascinante leggenda narra del grande amore, coronato dal matrimonio, tra Sebeto, ricco signore che abitava una rigogliosa campagna nei pressi di Napoli e Megara. Il loro idillio purtroppo durò poco poiché Megara morì, durante una passeggiata fra le acque del golfo. Spintasi troppo vicino alla costa Platamonia, dove il mare è sempre tempestoso, divenne preda delle acque e annegò, trasformandosi in scoglio. Appresa la terribile notizia, Sebeto si sciolse in amare lacrime diventando acqua, per gettarsi nel mare dove Megara era morta. Nell’attesa che il Sebeto risorga da quel limbo in cui è stato sepolto, il popolo partenopeo può ammirarne le effigie custodite in alcuni angoli di Napoli. Ancor’oggi la città conserva gelosamente nella propria architettura e nei simboli religiosi i resti del glorioso passato di questo fiume la cui storia si perde in un labirinto di miti e realtà.
In ultimo non possiamo mancare di soffermarci su due importanti medaglie coniate sotto il regno di Ferdinando II, la prima delle quali è dedicata al Congresso degli scienziati italiani tenutosi in Napoli nel 1845.
È forse da ricercare nella, di allora, trans-nazionaltà dell’evento che si è svolto a Napoli il richiamo alla figura dell’Italia turrita che, per la prima volta, compare su una medaglia borbonica.
L’origine della donna turrita è legata alla figura di Cibele, divinità della fertilità di origine anatolica, nelle cui raffigurazioni indossa una corona muraria. Durante la seconda guerra punica (218 a.C. – 202 a.C.), mentre Annibale imperversava per l’Italia, i sacerdoti romani predissero che Roma sarebbe stata salva solo se vi fosse giunta l’immagine di Cibele, ossia della dea del monte Ida, rilievo nei dintorni di Troia. L’immagine, una pietra nera conservata a Pessinunte, venne trasportata a Roma e collocata all’interno del tempio della Vittoria. L’esercito romano sconfisse poi Annibale e la città fu salva.
Da allora Cibele divenne una delle divinità di Roma, la Magna Mater, anche se il suo culto fu osteggiato poiché contenente riti orgiastici. L’importanza di Cibele nella religione romana divenne molto forte quando Virgilio scrisse l’Eneide (31 a.C. – 19 a.C.), narrando come il viaggio di Enea fosse stato protetto anche dalla dea, che fornì il legno degli alberi e salvò le navi dall’incendio di Turno.
Anche grazie agli eventi della guerra sociale (91 a.C. – 88 a.C.), che vide opposti Roma e i municipia italici, la figura di Cibele iniziò poi a rappresentare l’idea di un’Italia pacificata e unita sotto il dominio romano, così come Enea aveva pacificato i popoli latini, nonché lo spazio sacro del pomerium, ormai allargato a tutta la Penisola. Fu proprio durante questa guerra sociale che si manifestò per la prima volta la personificazione allegorica dell’Italia: apparve su una moneta coniata da Corfinium, città italica antagonista di Roma, anche se non ancora provvista della corona turrita.
L’elemento cartografico in questa medaglia è assolutamente tangibile nella mutevolezza delle sue estrinsecazioni. Dal Golfo di Napoli che ci fornisce una veduta prospettica di particolare impatto con la visione del Vesuvio in eruzione, ad una perfetta riproduzione, stavolta cartografica in senso puro, dell’Italia centro-meridionale nello scudo sul quale l’Italia turrita poggia il braccio sinistro. Quella in esame, però, risulta ancora come una rappresentazione non perfettamente “tradotta”, nonostante l’evidente legame tra lo stemma, la figura allegorica e la fiaccola simbolo di sapienza che illumina le menti.
Infine una tra le più cariche di figure allegoriche tra le medaglie di Ferdinando II, quella per la inaugurazione della ferrovia Napoli – Caserta.
Sulla certosina scena posta al rovescio della medaglia, che si racchiude in soli 8 cm di diametro, si è scritto giustamente molto. In occasione del presente lavoro vogliamo soffermarci esclusivamente sulla figura di Kronos, Titano della Fertilità e del Tempo, che quasi in diagonale ascende da destra verso sinistra tagliando la scena.
Nella Teogonia di Esiodo, ai vv. 133–138, viene narrato che Gea (Γαῖα), unendosi a Urano (Οὐρανός ἀστερόεις), genera i Titani: Oceano, Coio, Creio, Iperione, Iapeto,Theia, Rconvert latex to textea, Themis, Mnemosyne, Phoibe, Tethys e Kronos (Κρόνος).
Dopo i Titani, l’unione tra Gea e Urano genera i tre Ciclopi (Brontes, Steropes e Arges); e i Centimani: Cotto, Briareo e Gige dalla forza terribile.
Urano, tuttavia, impedisce che i figli da lui generati con Gea, i dodici Titani, i tre Ciclopi e i tre Centimani, vengano alla luce. La ragione di questo rifiuto risiederebbe secondo alcuni autori, nella loro “mostruosità”. Ecco che la madre di costoro, Gea costruisce dapprima una falce dentata e poi invita i figli a disfarsi del padre che li costringe nel suo ventre. Solo l’ultimo dei Titani, Kronos, risponde all’appello della madre: appena Urano si stende nuovamente su Gaia, Kronos, nascosto lo evira.
Da questo momento inizia il dominio di Kronos il quale, unendosi a Rea, genera: Istie, Demetra, Era, Ade ed Ennosidgeo; ma tutti questi figli vengono divorati da Kronos in quanto, avvertito dai genitori Gea e Urano che uno di questi lo avrebbe spodestato, non vuole cedere il potere regale. Grande sconforto questo stato di cose procura a Rea, la quale, incinta dell’ultimo figlio avuto da Kronos, Zeus (Ζεύς), e consigliatasi con gli stessi genitori, decide di partorire di nascosto a Lycto (Creta), consegnando a Kronos una pietra che questi divora pensando fosse il proprio ultimo figlio.
Zeus (vv. 492–500) cresce in forza e intelligenza e infine sconfigge il padre Kronos facendogli vomitare gli altri figli che aveva divorato, e il primo oggetto vomitato da Kronos è proprio quella pietra che egli aveva inghiottito scambiandola per Zeus. Quindi Zeus (vv. 501–506) scioglie dalle catene i tre Ciclopi così costretti dallo stesso Kronos, i quali lo ricambieranno consegnandogli la Folgore (i fulmini).
Nella presente medaglia, la figura di Kronos, volutamente sottolineato attraverso il suo posizionamento in posizione superiore, diagonale e ascendente, si riferisce allo scorrere del tempo inteso come progresso scientifico delle arti, dell’industria e della tecnologia.
L’esame stilistico condotto sulle medaglie oggetto del presente studio ha evidenziato il forte legame iconografico che ruota intorno alla figura del mito, anche nella produzione più recente tra quella del Regno delle Due Sicilie. Ciò, compiuto al fine di esprimere messaggi di varia complessità, perfettamente in linea con il senso dell’emissione ed in coerenza con la legenda annessa, nonché in totale aderenza e concordanza con le riproduzioni prospettiche, geografiche e cartografiche della natura ivi rappresentate.
Bibliografia
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- Orazio, Carmina Liber IV;
- Ricciardi Eduardo, Medaglie del Regno delle Due Sicilie. II edizione. Napoli, 1930;
- Varesi, Asta 49. Utriusque Sicilie – parte seconda. Le medaglie. Catalogo della vendita, Pavia, aprile 2007;
- Varesi, Asta 6. Novembre 1989. Catalogo della vendita, Pavia, 1989;
Ringraziamenti
L’autore desidera ringraziare Salvatore D’Auria, maestro sempre troppo poco lodato, per il saggio apporto di insegnamenti e per la gentile concessione di tutte le immagini riportate nel presente lavoro, il fraterno amico Michelangelo Bonì per la felice strada che insieme stanno percorrendo nel campo della numismatica e Mario Limido vero mentore motivazionale per le
nuove generazioni della numismatica.